di ROCCO AGNONE*
È nota la polemica riguardante gli interventi di rappresentanti di rilievo della gerarchia cattolica finalizzati al recepimento o non recepimento nella legislazione statale dì nonne a tutela di valori morali ritenuti irrinunciabili. Da parte di alcuni, tali interventi sono ritenutì una non legittima ingerenza nella gestiÒne dello stato mentre da parte dei rappresentanti della chiesa cattolica sono ritenuti manifestazioni di una libertà di espressione che non solo non può essere negata ma che è doverosa in quanto le comunità ecclesiastiche intervengono nel dibattito pubblico perché l’obiettivo è quellò di “illuminare le coscienze”. È di particolare importanza tentare una riflessione non superficiale sùlla oggettiva natura della controversia e sulla sua rilevanza. Per fare ciò si ritiene che occorra rispondere a due domande, peraltro tra loro intimamente connesse, e cioè bisogna chiedersi se gli interventi di cui trattasi sono del tutto equiparabilì agli interventi di chiunque esprime il proprio punto di vista nel libero dibattito pubblico di una società democratica e, a proposito di democrazia, qual è la posizione ufficiale della chiesa cattolica nei confronti della stessa. Relativamente a questo secondo profilo, nel recente (edito nel 2005) Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, curato dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, alla voce “democrazia” si afferma che democrazia “in senso generico significa la partecipazione dei cittadini nella gestione degli affari pubblici” e viene sottolineato che la Chiesa ha sempre incoraggiato tale partecipazione per, poi, sostenere che rispetto alle tre forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia), la Chiesa rispetta la libertà di scelta dei cittadini anche se attualmente la democrazia è la forma di governo che più favorisce la partecipazione alla vita pubblica. Inoltre, e ciò è di particolare rilevànza per il discorso che sarà sviluppato, il Dizionario afferma che il “Magistero ha fatto vedere l’errore ditale ideologia”, cioè “dell’ideologia della sovranità popolare, che ripone nel popolo l’origine ultima dell’autorità”. Soggiunge il Dizionario che “per evitare questo errore la dottrina cristiana ricorda che la libertà e la democrazia devono sorreggersi sulla verità e sui valori umani indisponibili” e di conseguenza “l’obbedienza alla verità integrale dell’uomo diviene, pertanto, imperativo morale per la cultura democratica del nostro tempo”. La concezione di democrazia espressa nel Dizionario appare abbastanza chiara: viene da un lato fortemente ridimensionata la cosiddetta sovranità popolare, di cui è fatta menzione anche nella nostra Costituzione nell’art. i (“la sovranità appartiene al popolo”), nonché la nozione di sovranità dello Stato, cioè la non subordinazione, nel suo ambito di competenza, ad altre istituzioni, considerato che si teorizza un imperativo morale per la cultura democratica riguardante il rispetto della verità integrale dell’uomo, della quale il magistero ecclesiastico della istituzione chiesa cattolica afferma di essere, per volontà divina, interprete, garante e tutore (peraltro è il Magistero che fa vedere, relativamente all’ordinamento civile della società, l’errore della falsa autorità del popolo; autorità che, quindi, appartiene a soggetti diversi). Le affermazioni del Dizionario sulla sovranità popolare contengono una concezione propria da moltissimo tempo della gerarchia della chiesa cattolica, rimasta nella sua essenza immutata fino ad oggi, probabilmente con l’eccezione fatta intravedere del concilio Vaticano 11 di una diversa impostazione. Così, tra l’altro, si legge nella celebre bolla Unam Sanctam di papa Bonifacio VIII: “è necessario che chiaramente affermiamo che il potere spirituale è superiore ad ogni potere terreno, come le cose spirituali Sono superiori ad ogni potere terreno […1. Perciò, se il potere terreno erra, sarà giudicato da quello spirituale”.
Ma in tempi ben più recenti è alquanto illuminante al riguardo leggere l’enciclica Immortale Dei dell’1/11/1885 di un altro famoso papa, Leone XIII, il quale ricordà un’epoca a suo avviso felice (“Vi fu un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava la società: allora la forza della sapienza cristiana e lo spirito divino erano penetrati nelle leggi, nelle istituzioni […i in ogni ordine e settore dello Stato”) ed elenca i benefici che la società trasse in quell’epoca. Benefici che sarebbero durati (anzi “se ne sarebbero potuti aspettare altri maggiori”) “se con maggiore fede e perseveranza ci si fosse inchInati all’autorità, al magistero, ai disegni della Chiesa”. Però, soggiunge papa Leone XIII, apparve nel sedicesimo secolo un “pernicioso e deplorevole spirito innovatore da cui, poi, si svilupparono le teorie liberali che elaborarono principi e fondamenti di un nuovo diritto che si distacca sia dal diritto cristiano, sia dallo stesso diritto naturale”. Il più importante di tali principi è per il pontefice quello che “afferma che tutti gli uomini, dal momento che sono ritenuti uguali per nascita e per natura, così sono effettivamente uguali anche nella vita pratica”, “pertanto ciascuno possiede un proprio diritto, tale da sottrarlo totalmente all’autorità altrui […1. In una società basata su tali principi, la sovranità non consiste che nella volontà del popolo, il quale, come possiede da solo tutto il potere, così da solo si autogoverna […]. Si tace dell’autorità divina, come se Dio non esistesse [..] come se gli uomini non avessero alcun obbligo verso Dio […j. Appare evidente che in tal modo lo Stato non sarebbe nient’ altro che la moltitudine arbitra e guida dì se stessa”. Conseguenza nefasta di tutto ciò è, infine, per Leone XIII, la scarsa considerazione della Chiesa e la negazione del ruolo pedagogico di Lei, “che pur ebbe per volontà di Gesù Cristo la missione di insegnare a tutte le genti”.
Le posizioni in proposito dell’attuale papa, Benedetto XVI, non si discostano nella sostanza da quelle del suo predecessore, pur all’interno di un discorso particolarmente elaborato e l’utilizzazione del registro della persuasione. È significativo che tre principi morali (protezione della vita, riconoscimento e protezione della famiglia, protezione del diritto dei genitori all’educazione) vengano da lui definiti non negoziabili. Quindi, esiste l’obbligo delle autorità cìvili di rispettarli (naturalmente così come sono declinati dall’autorità religiosa).
Significativa è anche la conclusione del recente discorso pronunciato a New York sulle rovine delle Torri Gemelle, quando, relativamente al rapporto tra fede e vita politica, di cui bisogna respingere la falsa dicotomia, afferma che nessuna attività umana, nemmeno nella sfera temporale, può essere “sottratta al dominio di Dio” (sarebbe interessante analizzare l’utilizzazione del termine dominio riferito all’azione di Dio e capire attraversò quali canali il dominio si concretizzerebbe). Significativa è anche l’insistenza sulla necessità che nella costituzione europea venga inserito il richiamo alle radici cristiane dell’Europa (richiamo voluto affinché venga dato un riconoscimento ufficiale a quel rapporto tra i valori cristiani, in particolare quelli proclamati dalla chiesa cattolica, e le strutture politico-istituzionali europee tanto lodato, come si è visto, da Leone XIII).
Vero è che Benedetto XVI ha dichiarato che i principi morali vanno difesi e preservati senza imporli e che “l’intervento nel dibattito pubblico delle comunità ecclesiastiche non costituisce una forma di intolleranza perché l’obiettivo è illuminare le coscienze”. In ogni caso affermare il ruolo della Chiesa (in particolar modo della autorità che esercita il Màgistero) di portatrice di luce nelle coscienze, significa affermare una specifica, se non esclusiva, competenza (e quindi uno specifico potere) data da Dio che le ha conferito un potere di mediazione tra il divino e l’umano. Vero è che il richiamo al diritto naturale serve a papa Ratzìnger per affermare che “i valori morali iscritti nel diritto naturale sono iscritti nella stessa natura umana e quindi sono comuni a tutta l’umanità” e di conseguenza debbono essere osservati da tutti gli uomini a prescindere dalla loro identità religiosa. Però tale tentativo di giustificare l’universalità delle proprie affermazioni sulla morale appare contraddittorio. Infatti anche in questo caso la gerarchia ecclesiastica si attribuisce una autorità e/o competenza da altri non posseduta (la natura è opera di Dio ed è a Lui riconducibile) nell’individuare le prescrizioni della legge naturale che contrasta con le difficoltà registrate dalla storia del pensiero umano in ordine all’esistenza e, comunque, in ordine a contenuti univoci della legge naturale. Non solo, perché è lo stesso magistero ecclesiastico che si contraddice, contraddicendo il carattere assoluto delle proprie affermazioni relative al diritto naturale. È sufficiente in proposito menzionare un esempio molto significativo. Papa Pio IX nelle Istruzioni del 1866 sostiene che “La schiavitù, in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina […j. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo può essere venduto, acquistato, scambiato o regalato”. Circa un secolo dopo, nella Costituzione conciliare Gaudiuin et Spes si leggono in proposito affermazioni dei tutto contrarie: la schiavitù, insieme ad altre condizioni sub- umane, viene addirittura definita “vergognosa”. Vero è ancora che Benedetto XVI ha evidenziato alcuni rischi seri che possono far degenerare la democrazia. Peraltro appare fondata la preoccupazione che “il risultato di alcuni metodi usati per convincere gli elettori (dietro ai quali vi è una potenza finanziaria che li guida)” possa creare il “monopolio di un pugno di uomini, che sposta a forza le cose verso una determinata posizione, limitando così anche la libertà delle opinioni”. Così come sembra degna di attenta riflessione l’affermazione che “la democrazia è in grado di funzionare solo quando funziona anche la coscienza” e che, non essendo la verità il prodotto della maggioranza in quanto esorbita l’attività politica e illumina la strada della politica, la maggioranza può compiere degli errori che potrebbero “mettere in dubbio beni fondamentali” facendo cadere “lo stesso obiettivo della libertà” con il risultato paradossale “che la libertà può essere distrutta proprio in nome della libertà”. Rimane, comunque, sullo sfondo delle suddette argomentazioni, accanto alla necessità di un mondo di valori che stia a fondamento della democrazia, ancora una volta il primato della chiesa cattolica e dei suoi rappresentanti ufficiali nello stabilire quali sono i valori e le verità (o la verità) che debbono illuminare la politica e le coscienze degli uomini anche quando svolgono attività politica. Non è casuale che Benedetto XVI abbia sottolineato che la coscienza retta che è in grado di far funzionare la democrazia è quella “guidata dal peso dei fondamentali valori morali del cristianesimo” anche se concede che tali valori possono essere realizzati pure “senza proclamarsì cristiani, persino nel contesto di una religione non cristiana”. In definitiva il rimedio alle possibili degenerazioni della democrazia per carenza di valori validi che la ispirano è dato dall’adesione ai valori morali cristiani di cui il magistero della chiesa cattolica possiede, per una loro corretta definizione oltre che per la loro tutela, l’autorità, certamente non posseduta dal popoio al quale appunto viene erroneamente attribuita una sovranità che non può possedere nemmeno nell’ambito della gestione della sfera della convivenza civile.
A questo punto la rìsposta alla prima domanda posta all’inizio, cioè se gli interventi di alti rappresentanti della chiesa cattolica sono del tutto equiparabili agli interventi di chiunque esprime il proprio punto di vista nel libero dibattito pubblico di una società democratica, non può che essere negativa (diversa è la risposta da dare nel caso della partecipazione alla vita pubblica dei semplici credenti). Infatti, come si desume dalla probante documentazione citata, tali interventi non sono equiparabili a quelli di qualsiasi uomo o di qualsiasi comunità o gruppo che concorrono con gli altri uomini a stabilire le regole della convivenza umana e delle relative istituzioni civili su un terreno di parità, trattandosi di interventi che si collocano su un piano superiore, quello di chi si ritiene detentore e custode della “verità integrale dell’uomo” per mandato divino e si ritiene, quindi, titolare del potere-missione di illuminare le coscienze degli uomini, ai quali, come si è visto, non può essere riconosciuta alcuna piena sovranità nemmeno nella gestione del cosiddetto temporale. Non è, poi, di poco conto aggiungere che i rappresentanti gerarchici della chiesa cattolica non sono i rappresentanti di una mera comunità religiosa, ma di una comunità religiosa strutturata in modo rigorosamente giuridico, il cui profilo giuridico si estende anche per certi aspetti di un qualche rilievo alla gestione dello spirituale, tanto che non appare azzardato affermare che la gestione della verità assume anche un carattere istituzionale che produce un ordinamento della verità il quale si pone a monte degli ordinamenti statuali.
Quindi, mettendo tra parentesi le varie sottigliezze dialettiche che a volte caratterizzano i discorsi in materia, la reale posta in gioco è la seguente: o una società nella quale la natura e il funzionamento delle istituzioni civili dipende dal dibattito effettivamente paritario tra tutti gli uomini all’interno del quale vanno affrontati anche i problemi relativi ai principi e ai pericoli di degenerazione della democrazia, o una società nella quale alcuni uomini, titolari dell’autorità di magistero in una istituzione religiosa, esercitano il ruolo di guida e dettano, in definitiva i principi fondamentali dell’azione politica e di quella legislativa in particolare. La seconda opzione è quella auspicata dal Dizionario di dottrina sociale della Chiesa in modo, diciamo, ufficiale quando, come si è visto, dichiara di accettare la democrazia ma senza la sovranità popolare (principio di autogoverno).
A questo punto è importante porre un’ultima e importante domanda: la seconda opzione è l’unica di cui possa dirsi che è riconducibile ai contenuti del messaggio evangelico? È lecito nutrire al riguardo qualche dubbio. Intanto va precisato che la concezione della sovranità popolare non è nata come concezione secondo la quale la verità è proclamata dalla maggioranza dei cittadini. È nata piuttosto come reazione ai rapporti di dominio e privilegio esercitati da minoranze nel governo della convivenza umana e come rivendicazione della possibilità di autogoverno di tutti gli uomini a tutela della eguaglianza, cioè della pari dignità di tutti gli uomini umiliata dalle disuguaglianze tipiche dell’ancien régime. Da ciò scaturisce che l’essenza della democrazia non è data dall’esistenza dei pur necessari strumenti tecnici della democrazia (ad esempio le elezioni), ma dall’effettiva partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, che richiede il possesso da parte degli stessi di una matura capacità di giudizio, tale da renderli idonei a valutare aiche le implicazioni etiche del vivere in comune e, quindi, in ultima istanza, tale da renderli autonomi. Di conseguenza, quando si paventano giustamente i rischi di degenerazione della democrazia e il rischio che il potere venga esercitato da gruppi di manipolatori delle coscienze, ciò che verrebbe nienornata in questo caso è proprio la possibilità di effettivo autogoverno da parte di tutti i cittadini, cioè il reale esercizio della sovranità popolare. Per affrontare questo rischio adeguatamente la soluzione è quella della seconda opzione? Quella cioè di una autorità spirituale e morale che predetermin un codice di prescrizioni etiche? Oppure non è cjuella di operare affinché si creino tutte le condizioni possibili che favoriscano la crescita degli uomini, e in particolare la capacità di essere loro i costruttori della vita in comune? E qui si pone la possibilità di ipotizzare una diversa ispirazione che può essere tratta dal messaggie evangelico: la metafora evangelica del lievito che si confonde con la pasta per farla fermentare non potrebbe alludere ad una presenza degli uomini di fede in mezzo agli altri uomini che, senza rivendicare la superiorità di un precostituito codice di norme morali fondato sul principio di autorità, testimoniano semplicemente i valori in cui credono, fidando esclusivamente nella intrinseca ed oggettiva validità dei valori testimoniati? La diversa articolazione delle esperienze dei credenti, anche di quelli appartenenti al mondo cattolico, sembrano conferire una qualche validità alla suddetta ipotesi. In ogni caso si ritiene che merita di essere approfondita e sviluppata la portata di quanto contenuto nel documento del Concilio Vaticano TI Dignitatis Humanae, dove, tra l’altro. quando si parla della libertà religiosa, si dice: “La verità deve essere cercata […] con una ricerca libera, con l’insegnamento, lo scambio e il dialogo”.
*già Provveditore agli Studi di Ragusa