Il nazional-popolare non ha mai fatto male a nessuno.
Anzi, accadde una volta che fece male, molto male a un dirigente RAI, la frase di Pippo Baudo sul nazional-popolare che colpì quel dirigente sulla “protuberanza sinistra della profondità metafisica ( tanto per usare una frase manzoniana).
Si seppe poi che quel politico dirigente era uno piduista e aveva idee ben precise sul piano di rinascita democratica dell’Italia.
Ma se siete fedeli cultori del nazional-popolare oltre a gustare su Internet la messinscena dei fantastici Oblivion che in dieci minuti sunteggiano il capolavoro manzoniano, andate a vedere e assaporare “I promessi sposi” riscritti da Michele Guardì e pentagrammati da Pippo Flora.
Due agrigentini, due sudisti, due terroni che si sono permessi di offrire al colto e inclito pubblico padano una serata in Duomo su fede, speranza e carità. Serata blindata persino dalla sinistrorsa RAI3 che l’ha trasmessa solo per l’aere lombardo e lasciando al buio il resto dell’Italietta delle cricche padano-caimane. Una promozione o una punizione? Una riservatezza imposta dall’alto per preservare da chissà quale contaminazione romantico-popolare la morente ( o scomparsa) egemonia di sinistra?
Di certo, se Michele Guardì avesse messo in scena I promessi sposi musical in epoca democristiana, avrebbe fatto saltellare di gioia Fanfani, Andreotti e Luigi Giglia e pure quel Franco Zeffirelli inseguito e malmenato dalla critica (allora egemone) di sinistra e riverito all’estero come maestro.
In quegli anni, un seggio senatoriale nessuno l’avrebbe tolto a Michele Guardì che oggi,invece, deve contentarsi di un cardinal Tettamanzi felice di rivedere sulla scena il romanzo della Provvidenza, dei valori cristiani purgati della luce dell’Illuminismo e del nicchiare giornalistico-mediatico di una Padania che forse si starà ancora chiedendo come questi due manigoldi terroni siano riusciti a mettere le mani su una storia milanese che provoca pruriti e rivendicazioni storiografiche.
Eh, si. Perché nell’Italietta padano-caimana fa difetto che il musical “Promessi Sposi” metta il dito nella piaga sul rapporto infranto tra politica e cultura, proprio quando il capitalismo postfordista ha cancellato operai e borghesia e ci riporta all’analisi della “civiltà montante” massmediatica e globalizzata in cui viviamo.. Spero che queste notazioni non siano mal comprese dal Guardì che per decenni si è come blindato nella sua Piazza Grande e nei suoi programmi televisivi che sono sopravvissuti e andati in onda sotto tutti i climi e le temperature politiche, suscitando sommi sospetti e interrogativi a critici TV come Aldo Grasso. E non solo.
Se poi si pensa che Guardì ha diretto il Teatro Pirandello per ben tredici anni in un periodo nel quale furono costruiti i guasti della sindacatura Sodano e degli assalti scomposti di Arnone (che oggi continuiamo a pagare), allora si avrà netta la sensazione che il nostro Guardì non è un furbo di tre cotte ma un cùculo che depone le uova nel nido degli altri amici volatili.. E ha avuto ragione Guardì, la sera della prima, quando ha voluto smentire il detto “nemo propheta in patria” mentre faceva fatica a ricacciare indietro la foga delle lacrime.. Del resto questo musical è il capolavoro della sua vita messo in scena in una ormai improbabile “Milano da bere” e trasferito in seconda battuta in una impossibile “Agrigento da bere”. Impossibile persino per i residuati bellici che fanno i gargarismi con l’acqua marina inquinata e discettano sulla “cacca” che galleggia..
E se siamo come siamo a questo punto di discussioni, ben vengano questi “Promessi” a ricordarci identità riconquistate, tumulti di popolo affamato, slanci romantici, amori oppressi e trionfanti, valori cristiani che rischiano l’opzional, valenze positive che il nostro vecchio sguardo non è più in grado di cogliere.
Guardì e Flora c’hanno messo ventanni (e non dodici come dicono) a porgere musicalmente il pensiero manzoniano e non è un caso che l’abbiano proposto tra le pieghe dell’ingranaggio multimediale, dentro e contro di esso, dove si combatte ogni giorno quella battaglia sul senso e l’interpretazione del presente, un tempo affidata, ma anche delegata, alle grandi ideologie.. Un musical che può farci sentire non più deprivati ma più ricchi di chi ci ha preceduti.
Ma il musical come va? La prima parte è come il lungo rullaggio di un aereo ma nella seconda parte il decollo è immediato e si raggiungono vette straordinarie con una regia meticolosa, con una musica che tralascia le giocosità pop-rossiniane per approdare alla maestosità delle grandi sinfonie. Per il Pater noster finale gli autori confessano di avere atteso due anni l’ispirazione. Ne è valsa la pena. Scenografie da “Lanterna magica” di Praga. Per noi, momento clou e cult, Cecilia e sua madre.
Per il resto ognuno lo assapori come può.
Diego Romeo