di Agostino Spataro
Ancora una volta una sentenza, quella di condanna del sen. Dell’Utri, ha fatto cambiare lo scenario politico siciliano. Tutti i conti fatti (anche a sinistra) senza il necessario rigore antimafia vanno a farsi benedire.
Tranne pochi fedelissimi, tutti hanno preso le distanze dal senatore e taluni anche dal disegno politico portato avanti in Sicilia dal sottosegretario Micciché, amico e strenuo difensore del condannato.
Meglio tardi che mai, si potrebbe dire. Tuttavia, una domanda resta ineludibile: ci voleva una seconda condanna per far ricredere i vari esponenti politici sull’opportunità, la praticabilità, la moralità di certe alleanze già realizzate e/o progettate?
La risposta è no. I vertici dei partiti, in questo caso come in altri, non avevano bisogno della certificazione giudiziaria per interrompere percorsi a dir poco contorti e perigliosi e per invitare gli imputati di gravi reati a dimettersi dagli incarichi o, in caso di rifiuto, dimetterli d’ufficio.
E, in caso di condanna, espellerli anche dal partito.
Invece, pare che la politica la facciano i tribunali. Non nel senso ingiustamente lamentato da Berlusconi, ma dell’inerzia del ceto politico che sembra aver abdicato ai suoi doveri sanzionatori delle condotte illecite e rinviato l’ingrato compito agli inquirenti e alle corti penali.
Forse, così, sperando di tirare a campare, di continuare a galleggiare fra le acque maleodoranti della palude siciliana, fino a quando la barca non affonderà, definitivamente.
Salvo, poi a lamentarsi che in Sicilia le svolte politiche, le stesse elezioni anticipate le decidono le sentenze: ieri è successo con Cuffaro, oggi con Dell’Utri, domani chissà.
Tutto ciò è inaccettabile per un ceto politico responsabile il quale, specie in Sicilia, deve dimostrare di possedere fiuto, intelligenza e coerenza per prevenire ed evitare palesi inciuci e trappoloni come quello che si sta (o si sta ancora?) apparecchiando alla Regione in cui sono incappati anche navigati esponenti del Pd e perfino uno stimato maestro d’antimafia qual è il sen. Lumia.
Cambio di scena o di sceneggiatura? Vedremo. In ogni caso, un cambio salutare per la politica siciliana e in primo luogo per il Pd alle prese con un aspro dibattito interno nel quale s’era incuneato un intruso, un convitato di pietra: il Pdl Sicilia di Micciché (e un po’ anche di Dell’Utri) il quale, mentre continua a giurare amore e fedeltà assoluta ai suoi capi romani sferza il Pd a compiere uno strappo con Roma.
La richiesta è perentoria: per entrare nel Lombardo- quater, il Pd deve rompere con Roma e fare la “rivoluzione” come ha fatto il Pdl- Sicilia.
Ma così non stanno le cose. Dai pellegrinaggi a palazzo Grazioli e a Montecitorio mi pare che i capi del PdL Sicilia con Roma non hanno rotto un bel nulla. Anzi.
Tranne che, a nostra insaputa, Roma non si sia trasferita nella ducea di Bronte dove, dopo i Nelson, comanda una piccola dinastia di politici del Pdl: l’on. Castiglione, coordinatore regionale, e il di lui suocero senatore e sindaco Firrarello, entrambi, per altro, mal sopportati da Micciché e da Lombardo.
Dal canto loro, i finiani siciliani sono un po’ obbligati a seguire Micciché perché devono difendere qualche posto di governo e di sottogoverno alla regione contro il parere dell’altro coordinatore (ex An) sen. Nania. E così, il cerchio si chiude.
Insomma, si vorrebbe far passare per rivolta autonomistica una rumorosa controversia locale.
In verità, da ambo le parti, questi signori continuano a (di) pendere dalle labbra dei rispettivi referenti romani.
Allora, perché lo strappo con Roma dovrebbe farlo il Pd che, per altro, non ne ha motivo?
In questa disputa Lombardo mantiene un profilo basso, ma lavora con pari impegno per fare evolvere a suo favore il confronto interno al Pd dai cui esiti- egli sa benissimo- dipenderanno le sorti della giunta attuale e futura.
I due architetti del governo minoritario sono consapevoli che senza una “svolta” del Pd nel senso da loro richiesto (ossia il Pd-Sicilia) la loro avventura potrebbe finire molto prima del previsto.
Micciché non potrebbe sedere al governo con assessori targati Pd (e viceversa), altrimenti la scissione da Roma dovrebbe farla sul serio.
E così, i due strateghi con una fava (la promessa dell’entrata in giunta) prenderebbero più di due piccioni ed eviterebbero di spiegare al popolo, e al cavaliere, le loro insanabili contraddizioni.
Purtroppo, alcuni dirigenti del Pd hanno abboccato, spingendosi fin dentro territori troppo ambigui e scivolosi.
Altri, come Lumia e Cracolici, con qualche distinguo, hanno “posto il problema” in pubblico, imprimendo una pericolosa accelerazione alla capziosa controversia sul “federalismo” che, forse, dopo questa sentenza, rientrerà nell’alveo di una corretta e unitaria dialettica democratica.
Senza più indugiare sui Lombardo ter o quater, ma cominciando a preparare il dopo- Lombardo.
Agostino Spataro