INCESSANTE L’ECCEZIONALE SUCCESSO DEL “THRILLER” CHE FA TREMARE L’ITALIA
FIRMATO DA EDOARDO MONTOLLI E CON LA PREFAZIONE DI
MARCO TRAVAGLIO
STORIA DI UN UOMO IN BALIA DELLO STATO
PARLA GIOACCHINO GENCHI: “E ORA RACCONTO TUTTO”
Parole & Segni
A cura di Nuccio Mula
Sabato 12 giugno 2010, Ore 18.00 – 20.30, ad Agrigento, Fabbriche Chiaramontane, presso la Chiesa di san Francesco d’Assisi, Basilica dell’Immacolata, si terrà la presentazione del libro del dott. Gioacchino Genchi “IL CASO GENCHI” – A tal proposito riproponiamo l’ampia recensione del libro, a firma di Nuccio Mula, che “La Valle dei Templi” ha pubblicato per prima sul territorio agrigentino nello scorso marzo. Nel volume, di circa mille pagine, sono riportati centinaia di fatti, di documenti e di nomi; e fra tali ultimi, più volte (e per diverse vicende) appaiono, oltre ad un impressionante numero di “alti papaveri” della “casta” d’ogni schieramento e colore, anche quelli di noti esponenti della politica, delle istituzioni e dell’imprenditoria riconducibili ad Agrigento ed alla sua provincia: da Salvatore Cuffaro ad Enrico la Loggia, da Marianna Li Calzi ad Angelino Alfano, da Salvatore Cardinale ad Angelo La Russa, da Calogero Mannino a Fabio e Filippo Salamone ed altri: presenze che, a vario titolo, suscitano interrogativi e, a volte, ragionevoli perplessità; e che, per questo, riteniamo debbano essere adeguatamente “evocate” dal pubblico, e soprattutto dalla stampa, nel corso di questo incontro che, se adeguatamente gestito, potrà rivelarsi davvero “esplosivo”.
“Sono nato a Castelbuono (PA) il 22 agosto 1960. Sono sposato ed ho tre figli: Niccolò, Francesca e Walter. Il mio paese è una ridente località della provincia di Palermo, situata alle pendici delle Madonie. Castelbuono è un paese con grandi tradizioni di democrazia, cultura, civiltà e legalità. Sono legato al mio paese e l’essere castelbuonese è la cosa di cui mi sento più orgoglioso. Da ragazzo mi sono formato nella libreria di mio padre, centro di ritrovo dei letterati e degli studiosi del paese. Quella libreria per me è stata la prima, vera e più importante “scuola”. Ho conseguito il diploma di maturità con 60/60. Dopo il diploma, viste le non troppo floride condizioni economiche della mia famiglia, ho iniziato a lavorare per un’azienda specializzata del centro Italia nel settore informatico. Così mi sono mantenuto negli studi universitari ed ho conseguito la laurea in Giurisprudenza con 110/110 e lode, all’Università degli Studi di Palermo. Nel corso degli studi universitari, oltre alle materie ordinarie del piano di studi (conseguite quasi tutte col massimo dei voti), ho frequentato ben 10 “corsi liberi” in materie storico-giuridiche, tutti superati con “30 e Lode”. Ho intrapreso la carriera forense ed ho conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione di Avvocato. Ho pure conseguito l’abilitazione all’insegnamento di materie giuridiche. Nel 1985 ho superato il Concorso di Funzionario della Polizia di Stato. Dall’ingresso in Polizia ho diretto diversi uffici (la Zona Telecomunicazioni per la Sicilia Occidentale, il Nucleo Anticrimine per la Sicilia Occidentale, il Centro Elettronico Interregionale di Palermo, ecc.). Su incarico del Consiglio Superiore della Magistratura ho tenuto dei corsi di formazione e di aggiornamento per Magistrati e Uditori Giudiziari. Altri corsi ho tenuto per gli Avvocati, su incarico delle Camere Penali. Ho pure insegnato nelle Scuole di Polizia ed ho tenuto diversi interventi presso alcune Facoltà Universitarie. Dal 1996 ho svolto l’incarico di consulente tecnico dell’Autorità Giudiziaria in importanti indagini e processi penali. I risultati del mio lavoro sono consacrati in centinaia di ordinanze, di sentenze e di pronunce della Corte di Cassazione. Per una scelta puramente deontologica sono in aspettativa non retribuita dal giugno del 2000 dal Ministero dell’Interno. Ho così pure rinunciato volontariamente alla carriera in Polizia, quando ricoprivo già da oltre cinque anni la qualifica di Vice questore aggiunto. Nell’assolvere agli incarichi giudiziari che mi sono stati affidati ho sempre e solo servito lo STATO e la GIUSTIZIA, nello strenuo tentativo di ricerca e di affermazione della VERITA’. Per questo e solo per questo so di avere molti nemici e parecchi interessati detrattori. So pure di avere molti amici che mi stimano e mi vogliono bene. La loro solidarietà, l’affetto dei miei familiari e la pulizia morale della mia coscienza, mi danno la forza di continuare nel mio lavoro, con l’onesta, la tenacia, l’entusiasmo e l’indipendenza, che mi hanno accompagnato e caratterizzato sin dal primo giorno”.
Questo il profilo autobiografico “ufficiale” di Gioacchino Genchi, dal sito www.gioacchinogenchi.it che, assieme all’altro sito www.ilcasogenchi.it, all’affollatissimo “blog” gioacchinogenchi.blogspot.com, a decine di migliaia di pagine sul “web” e ad un rilievo mediatico non comune (con ovvi picchi allorché il suo “caso” prima venne artatamente amplificato da una rete di reazioni depistanti e di devianze informative e poi, per sua e nostra fortuna, si “sgonfiò” con eguale immediatezza), ci dimostra l’eccezionale interesse dell’opinione pubblica verso quest’uomo ritrovatosi, all’improvviso, “in balia dello Stato”, cioè solo ed isolato da tutte le istituzioni precedentemente prodighe nel riservargli altissima considerazione personale e professionale e poi, all’improvviso, coalizzate in un “mix” di ostilità, di silenzi, di “sconfessioni” ovviamente eteroguidate dai vari untori, insabbiatori ed imbavagliatori di questo inqualificabile neoregime che purtroppo, di fatto, stiamo direttamente vivendo e che continua ad imperversare, imbonire, insabbiare, tramare e delinquere in attesa di un’agognata e prossima, sciaguratissima deflagrazione che una sinistra di potere compromessa, frantumata ed incapace d’intendere e di volere, parolaia e gravida di mezze figure o di smaliziati camaleonti altrettanto inquinati ed iniqui, sta dimostrando di non essere proprio per niente all’altezza di lottare in modo adeguato.
Un interesse ora nuovamente al “top”, dal dicembre 2009, grazie ad una pubblicazione (a metà fra memoriale di vessazioni ed allucinante “dossier” di accadimenti e, soprattutto, di documenti) dal ponderoso spessore per esiti d’impostazione nonché “fisicamente” monumentale nel suo proporsi tipografico:e cioè “Il caso Genchi”, sopratitolo “Gioacchino Genchi: ‘E ora racconto tutto’…”, a cura e firma di un autorevole scrittore, Edoardo Montolli, data alle stampe da una delle Case Editrici più illuminate ed illuminanti d’Italia, Aliberti, collana “Yahoopolis”, e 19, 90 euro di prezzo verosimilmente contenuto e pressoché “simbolico” a fronte di quasi 1000 (mille!) pagine una più avvincente (e sconcertante, e smascherante, ed incredibile ma vera) dell’altra, ad iniziare da una lunga ed icastica presentazione di Marco Travaglio: un successo editoriale clamoroso (molti continuano a definirlo “un thriller che sta facendo tremare l’Italia”) a dispetto delle tante e solite manovre di quella stampa notoriamente asservita al neoregime che, dinanzi alla “pesantezza” (e tutt’altro che solamente cartacea) di questa vera e propria enciclopedia della criminalità politica organizzata, ha deciso, accantonata l’impossibile ipotesi d’ignorarla del tutto (ma come avrebbero potuto farlo, dinanzi a una batosta di tale portata?) di tentare, ma senza riuscirvi, una contromossa disinformatrice di sminuimento dei suoi contenuti, liquidandola come “container” di approssimazioni ed inesattezze, se non proprio di falsità (ma è invece reale, veridica e verificabile, nel testo, la stragrande copiosità di atti giudiziari, di stralci e riscontri documentari e di quelle intercettazioni che il neoregime vuol mettere fuorilegge, mentre, nella gran parte dei casi, è solo grazie ad esse che la Giustizia, ancorché sempre definita, salve compiacenti eccezioni, “banda di comunisti e di talebani” – in un livore tirannico, timoroso e delegittimante – riesce a dedurre, a giudicare ed a condannare,ed incontrovertibilmente, cioè fatti e prove alla mano,“all’orecchio” e dinanzi agli occhi di tutti).
«In Why Not avevo trovato le stesse persone sulle quali indagavo per la strage di via D’Amelio. L’unica altra indagine della mia vita che non fu possibile finire». «La storia sconvolgente che spiega perché tanti potenti hanno paura del contenuto dell’archivio Genchi» (Marco Travaglio), nel dialogo tra Gioacchino Genchi e Edoardo Montolli inizia così, e senza mezzi termini. E per la prima volta viene a galla ciò che Silvio Berlusconi (chissà perché proprio lui, cari lettori), aveva definito «il più grande scandalo della Repubblica»: appunto il cosiddetto «archivio Genchi». E viene a galla con nomi e cognomi. Un materiale così scottante e del tutto inedito da poter riscrivere gli ultimi vent’anni d’Italia: da Tangentopoli alle scalate bancarie, dai grandi “crac” ai processi clamorosi. Fino alle stragi del 1992 e 1993, dalle agende di Falcone agli ultimi due giorni di vita di Borsellino, con elementi completamente nuovi che aprono enormi squarci nelle istituzioni, fino a vere e proprie profezie (vedasi, per esempio, al nome ed al caso del giudice Toro, “esploso” nei giorni scorsi, e ad altri personaggi o fattualità). Ma non con teorie o teoremi: con dati, fatti, resoconti puntuali ed accurati su indagini ed impensabili amicizie: uno choccante “dietro le quinte” della politica fin oltre le origini della seconda Repubblica. Dopo averlo letto, niente vi sembrerà più come prima.
Luglio 1992, la Sicilia è dilaniata dalle stragi. In città c’è un poliziotto maledettamente bravo con le tecnologie. Ha lavorato con Falcone e sono tre anni che si occupa dei misteri di Palermo. Si chiama Gioacchino Genchi, ed é a lui che chiedono di scoprire qualcosa sulle agende elettroniche del giudice, e di capire dai telefoni se qualcuno spiasse Paolo Borsellino. E lui qualcosa scopre. Scova “files” cancellati e li salva. Poi ipotizza una pista per via D’Amelio: date, nomi, luoghi. Diventa vice del gruppo Falcone-Borsellino. Ma quell’indagine non la finirà mai. Una mattina, mentre l’Italia esulta per l’arresto dei killer, all’improvviso sbatte la porta. E se ne va. Da allora non ne parlerà mai più, anche perché la sua altissima professionalità viene quotidianamente ricercata e lodata nell’ambito di altri casi giudiziari gravi e rilevanti.
Lo chiamano, infatti, nei processi più delicati: le talpe nel “Ros” di Palermo, il caso Dell’Utri, i capi di “Cosa Nostra” e i “colletti bianchi”, il caso Cuffaro e la sanità siciliana. Le sue consulenze sui telefoni ribaltano giudizi, fanno condannare centinaia di persone e assolvere miriadi di innocenti. Per vent’anni è considerato il più abile consulente telematico delle Procure. Ogni anno la polizia stila graduatorie e gli assegna un punto più del massimo per le «eccezionali doti morali» e il prestigio che ne consegue. Finché approda a Catanzaro, per la notissima inchiesta “Why Not” gestita da Luigi de Magistris, ora non più giudice dopo tante amarezze. Una mattina Genchi accende il pc, guarda i tabulati telefonici. E all’improvviso sbianca. Ma non fa in tempo a stendere una relazione: incarico revocato, sequestrato l’«archivio» con tutti i dati fin dal 1992. E lui indagato e perquisito, sospeso dalla polizia, ripudiato dalle istituzioni, attaccato da ogni parte politica, mentre, altrove, ben quattro magistrati perdono il posto. Ma perché? Cosa c’era di tanto grave e “scomodo” in “Why Not”? E cosa c’era, nello specifico, in quei tabulati? Subito detto, amici lettori, ed in una sintesi che si commenta da sola: giudici a contatto con “boss” e vari magistrati amici degli indagati e dei loro avvocati. Ma c’era soprattutto un intreccio telefonico economico-politico-giudiziario che, da Catanzaro, saliva a Roma, incrociando i processi sulle scalate bancarie, la vicenda Umts, i crac Cirio e Parmalat e lo spionaggio Telecom, incuneandosi indietro nel tempo all’origine e al declino di Tangentopoli ed a tante, troppe inchieste di cui Genchi s’era occupato, ed agli stessi nomi su cui indagava per via D’Amelio, quando se ne andò sbattendo la porta. Ed ora, depositate in tribunale le sue scoperte per difendersi, può finalmente raccontare perché lasciò allora, perché fu fermato adesso. E lo fa, in questo sconvolgente “memoriale-dossier”, con tanto di nomi, fatti, date, dati, luoghi, complicità, crimini ed “affaires”. Perché questo lungo e complesso racconto non è solo la storia di un’inchiesta bloccata a Catanzaro, ma la storia di tutta la seconda Repubblica.
E non siamo solo noi, chiaramente, a pensarla così. Ecco infatti, e sempre nel contesto non deformante di una doverosa controinformazione che, provvidenzialmente, anche da posizioni “di nicchia”, contribuisce in modo fondamentale a ristabilire la verità su questo ed altri gravissimi casi di mistificazione giudiziaria e mediatica, anche quasi tutta la recensione di questo volume pubblicata su www.libreidee.org e su altri siti “alternativi”.
“Un materiale così scottante da riscrivere gli ultimi vent’anni: da Tangentopoli alle scalate bancarie, dai grandi crac ai processi clamorosi, fino a Falcone e Borsellino, «con elementi nuovi che aprono enormi squarci nelle istituzioni». Non teoremi, ma fatti: «Indagini e amicizie impensabili, uno scioccante dietro le quinte». Retroscena clamorosi della politica, «che portano direttamente alle origini della Seconda Repubblica», annuncia l’editore Aliberti presentando “Il caso Genchi, storia di un uomo in balia dello Stato”. Un giallo intricato ma semplice, che incrocia quasi tutti gli scandali del potere: «Quelli che i professionisti della rimozione chiamano “misteri d’Italia” e che di misterioso in realtà non hanno un bel nulla». Così Marco Travaglio nella citata prefazione di questo libro che continua a fare molto rumore, firmato dal giovane Montolli, 36 anni, milanese, una passione per i gialli e le inchieste-verità sui maggiori crimini.
In quest’ultima indagine, Montolli dialoga direttamente con Gioacchino Genchi, ora riabilitato vicequestore di Palermo e già consulente informatico di magistrati come Giovanni Falcone e Luigi De Magistris, sottoposto a gogna mediatica e poi scagionato nel giugno 2009 dall’accusa di aver abusivamente intercettato 350.000 persone. Genchi si occupava semplicemente di tabulati telefonici, per conto di diversi inquirenti. Il suo prezioso archivio, sottoposto a inziale sequestro, gli è stato restituito.
Proprio l’archivio di Genchi – il quale arrivò due ore dopo nel luogo della strage di via D’Amelio, individuando nel castello di Utveggio il luogo da cui sarebbe stato azionato il radiocomando dell’esplosivo utilizzato per la strage (secondo Salvatore Borsellino, in quel castello sulle alture sovrastanti Palermo si sarebbe celata una base del Sisde) – rappresenta il cuore del libro di Montolli, dato che Genchi ha ricostruito incroci telefonici decisivi per illuminare il rapporto tra mafia, affari e politica.
«Possono levargli i fascicoli su cui sta lavorando, possono portargli via i computer, possono sequestrargli tutti i file memorizzati. Ma lui continua a ricordare e a collegare tutto. Dovrebbero proprio eliminarlo fisicamente – scrive Travaglio – per renderlo inoffensivo». Avrebbe potuto «diventare stramiliardario», gli sarebbe bastato «far sapere di essere in vendita e mettersi all’asta». La prova migliore della sua onestà? «Non ha mai guadagnato un euro in più di quello che gli derivava dal suo lavoro». Mai fatto uso improprio delle informazioni ottenute incrociando intercettazioni e tabulati telefonici acquisiti in vent’anni da decine di uffici giudiziari.
Per Travaglio, il libro di Montolli è «un thriller sconvolgente», visto che spiega «perché tanti potenti hanno paura del contenuto del cosiddetto “archivio Genchi”», rivelando «che cosa aveva scoperto e stava per scoprire Luigi de Magistris», e dunque «perché non doveva proseguire nelle sue indagini a Catanzaro sulla cosiddetta Nuova P2». Il libro fa luce sui fili che «collegano i politici calabresi con i leader della politica nazionale e della parte più marcia della magistratura e della finanza nazionale, nonché della massoneria».
Montolli racconta di «magistrati in contatto con boss della ’ndrangheta, procuratori che vanno a pranzo con i loro indagati, giudici che vanno a braccetto con avvocati poco prima di scarcerare i loro assistiti, fughe di notizie pilotate per depistare e bloccare indagini o addirittura per favorire la fuga di ’ndranghetisti stragisti. E poi collegamenti, tanti, forse troppi per non impazzire: collegamenti insospettabili e inaspettati, come quelli che portano al delitto Fortugno e alla strage di Duisburg, ma anche all’affare Sme, al grande business miliardario delle licenze per i telefonini Umts, ai crac Cirio e Parmalat, alle scalate dei “furbetti del quartierino” all’Antonveneta, alla Bnl e al Corriere della Sera, allo scandalo degli spionaggi e dei dossieraggi Telecom-Sismi».
Vicende nelle quali, come fantasmi eternamente danzanti, ricompaiono personaggi già emersi nelle indagini di Genchi sulle stragi di Capaci e via d’Amelio, «cioè sulla sanguinosa nascita della Seconda Repubblica». Oltre a quelli su Catanzaro e sul «clan Mastella», Travaglio definisce «agghiacciante» il capitolo su un ex iscritto alla P2, Giancarlo Elia Valori, già «espulso per indegnità» da Licio Gelli e tutt’oggi «gran collezionista di cariche pubbliche e private e di amicizie a destra come a sinistra, con incredibili entrature nei vertici della politica, della magistratura, della guardia di finanza, dei carabinieri, del Viminale, del salotto buono di Mediobanca ma anche di outsider come i furbetti delle scalate».
Valori, rivela il libro di Montolli, era l’obiettivo di de Magistris, «che fu fermato appena in tempo». Il volume cita «i frenetici contatti telefonici di Valori» con i vari Latorre, Minniti, Cossiga, Ricucci, Geronzi, Benetton, Caltagirone, Gavio, Rovati, con generali delle Fiamme gialle e i centralini del Viminale, di Bankitalia e del Vaticano «nei giorni cruciali dei processi e delle indagini su Umts, Parmalat, Cirio e Unipol», contatti che includono il procuratore aggiunto di Roma, lo stesso che ha poi indagato Genchi.
«Mettete insieme memoria e onestà, e avrete una miscela esplosiva, anzi eversiva», scrive Travaglio. Una miscela «che basta, da sola, a spiegare perché in un Paese come l’Italia Genchi è visto come un pericolo pubblico. Non ruba, non ricatta, sa che cosa sono le leggi e lo Stato e li serve fedelmente, e per giunta non è ricattabile. Riuscite a immaginare un nemico peggiore, per i poteri fuorilegge che si spartiscono l’Italia praticamente da quando è nata?».
Ininterrottamente attaccato dal 2004, Genchi è finito nei guai nel 2007, lavorando con de Magistris nelle inchieste sulla cosidetta Nuova P2, «cioè il trasversalissimo cupolone politico-affaristico-massonico-giudiziario che tiene in scacco l’Italia», ovvero «una piovra che affratella esponenti del centro, della destra e della sinistra». Le indagini sono costate la rimozione del pm, di Genchi e dell’altro braccio destro del magistrato, un capitano dei carabinieri.
Mentre la politica «ormai terrorizzata dalle intercettazioni e dai tabulati, che sempre più spesso svelano contatti fra uomini di partito e uomini d’onore» si è affrettata «ad approntare leggi che impediscano le intercettazioni e imbavaglino la stampa», anche se Genchi non ha mai intercettato nessuno in vita sua è diventato un mostro, un ricattatore, un pericolo per la democrazia.
I diari di Andreotti, le esternazioni di Cossiga, i dossier di Craxi? Nulla, in confronto all’archivio Genchi. Renato Farina, coinvolto nelle intercettazioni illegali del Sismi di Nicolò Pollari per neutralizzare possibili avversari di Berlusconi, divenuto parlamentare Pdl propone una commissione parlamentare d’inchiesta: Genchi, chiamato dal Copasir a discolparsi, chiarisce tutto, ma «quelli o non capiscono, o fingono di non capire», confondendo i tabulati (numeri, luoghi e orari delle chiamate) con le intercettazioni (contenuto della telefonata).
Non si spiega, scrive Travaglio, «perché il metodo Genchi va benissimo quando porta all’ergastolo assassini e stragisti, ma non quando si occupa di colletti bianchi». Interviene la Procura di Roma che sequestra i computer di Genchi e il capo della polizia Antonio Manganelli lo sospende dal servizio: rilasciando interviste per difendersi dalle calunnie, avrebbe assunto una condotta «lesiva per il prestigio delle istituzioni», rendendo la sua permanenza in servizio «gravemente nociva per l’immagine della polizia», a differenza dei poliziotti condannati in primo grado per i pestaggi al G8 di Genova, «rimasti tutti ai posti di combattimento» o addirittura promossi.
Edoardo Montolli, trentasei anni, vive a Milano e scrive di crimini. è autore per “Hobby & Work” di due apprezzati “thriller”, Il boia e La ferocia del coniglio, poi meritevolmente inseriti nell’autorevole collana “Giallo Mondadori”. Per Aliberti ha pubblicato altri tre libri: Tribù di Notte, Cara Cronica – Lettere (mai pubblicate) a Cronaca Vera e, con Felice Manti, Il grande abbaglio. Controinchiesta sulla strage di Erba.
Nuccio Mula