Herr Professor – di Sara Milla

-Io vi chiedo, per favore, di considerarmi, di ammirarmi, lo chiedo!- gridò al centro della sala e tanto il suono della sua voce saliva, così il suo corpo si rannicchiava verso il pavimento, fino a chiudersi.

 Il professore giaceva al centro dell’emiciclo. Nessuno riusciva a muoversi, ma tutti lo fissavano immobili. Rimase nel silenzio la sala universitaria e nessuno si precipitò a tirarlo su, a chiedergli il perché di quello scoppio di teatralità, o altro.

– Tutto ciò che è traboccante non sempre va buttato sul marmo del banco con le solite espressioni. Quello che trabocca è delicato, bisogna trovare le parole, che non siano usuali eppure che si rendano comprensibili. Quello che trabocca va difeso e non gettato in piazza per essere travolto, ma perchè gli si dedichi un monumento-

La voce che proveniva da quel fagotto umano ci lasciò tutti di stucco. Allora il decano si alzò dalla cattedra e si avvicinò con sollecitudine al professore. Si chinò verso di lui, dove immaginava dovesse avere le orecchie:-

Professore, professore, la prego, non sta bene?-

Barcollando il professore si rialzò, e aveva il viso rigato di lacrime, e gli occhi spenti, e i pugni chiusi.

Ero troppo giovane. Oggi me ne ricordo. Sto qui oziando davanti al computer, aspettando che arrivi una immagine ad aiutarmi. Non ho scalette da onorare, oggi. Non documenti da consultare. Oggi. Ed è arrivato lui, al centro di una sala semicircolare a dirmi come si scrive. O perlomeno, come lui ritenesse dovesse esser fatto, fino a rimetterci la ragione e pena l’esclusione dal mondo accademico. Lui scriveva bene, solo che il Suo Tempo non lo voleva. Era professore di letteratura moderna. Un uomo di mezza età con abiti impeccabili. Non affatto ingrigito. Come i suoi testi del resto. Brillanti, sostenuti, freddi. Solo la mia compagna di corso lo aveva ben inquadrato e lo chiamava ghiaccio bollente.  Lei era deliziosa, devo dire, con quei capelli lunghi fin sotto le anche, e i vestitini leggeri d’estate, francamente la seguivo anche senza guinzaglio. Lei diceva che il professore sembrava lontano, assente dalle  storie che scriveva, e invece le accompagnava con lo sguardo, con grande trepidazione, come una madre che non vuole interferire con la magnificenza della vita. Lei ora è un temibile critico, e io uno scrittore a caso: un po’ di fantascienza, storie per ragazzi, un romanzo d’amore, cose che lei getterebbe nella spazzatura, temo.

Ma la frase che mi mulinava in testa l’avevo letta pochi giorni prima, proprio sul saggio che la mia compagna di corso aveva dedicato al suo ex professore. Lei non c’era quel giorno, quando lui l’aveva così drammaticamente enunciata, prima di arrendersi, pover’uomo. Il vero pungolo del professore era diventare uno scrittore anglosassone, a quanto pare, mentre era un pugliese tormentato, un uomo dagli occhi così trasparenti che agli esami ci confondevamo nel suo sguardo come ci si lascia andare di fronte al mare.

Il suo pallino era rendere semplice e piano ciò che è tortuoso. Io non avevo niente di tortuoso in testa, per questo riscuotevo successo, la gente mi capiva e non si affaticava, e nemmeno io. E se avessi voluto la considerazione della mia ex compagna a cui tanto tenevo, cosa le avrei dovuto dire per legarla a me? Il professore ora, mi avrebbe suggerito di  tenermi a distanza dal sentimento che mi aveva praticamente portato di qua e di là per tutto il tempo che la frequentai? Lui avrebbe usato una espressione enigmatica, mentre io avrei confessato subito e a tutti: amore. Anche altre bazzecole, tipo desiderio, libidine spinta, e similari romanticherie. Lui avrebbe detto: Giovanni la vide entrare nel bar, le sorrise, la salutò e senza alzare più gli occhi, andò via, a girovagare per la città, e non la pensò mai. Lui si sarebbe diretto per la strada opposta per dimostrare l’amore che lo agitava in varie pezze del corpo, io no: Giovanni la vide, e attaccò subito bottone. Forse per questo ora lei recensisce il professore e me non mi ha mai nemmeno visto, suppongo. E’ curioso che pensi così spesso a loro, ogni volta che mi piazzo davanti al computer per liberarmi un po’ dagli articoli di politica per le masse incolte che devo scrivere on line a anche sotto line e soprattutto sottopagato dall’editore del settimanale. Perché mi infastidiscono, mi tolgono il gusto di scrivere come viene viene, e tutto quello che mi balla nelle meningi un secondo prima di dormire o di sognare. Perché non è che questo, io vorrei sognare.

Prima andava tutto bene, poi è apparso l’articolo, poi la foto, poi la firma di lei. Poi la foto di lei. E ho ricordato il giorno che me ne sono tornato a casa a piedi, come al solito, con un libro sotto il braccio per sembrare lo studente che non ero, dopo che avevano accompagnato fuori il professore dall’aula. Era tutto come sempre, leggero, spensierato. I miei passi a caso. E arrivato sotto la casa dello studente l’ho vista piangere. Mi sono nascosto. Ma non come diceva il professore, perché le emozioni si rappresentassero da sole, ma perché queste emozioni qui io non le volevo. Lei piangeva e io pensavo a come approfittarne. Per questo non ne ho fatto niente.

Vado sul computer e digito il suo nome sul motore di ricerca. Esce una sfilza di cose che mi fanno arrossire. Chiudo. Ho da lavorare io. Eppure, eppure. Sono sicuro che lei mi vide. Perché ad un certo punto, dietro l’angolo di quel palazzo da cui sicuramente spuntava la mia testa, chiusi gli occhi. Credevo per un riflesso ed invece era per non incontrare il suo sguardo. Lei mi vide. Ma il giorno dopo comunque mi venne incontro, sorridendo. E i giorni successivi. Come se aspettasse qualcosa da me? Ora mi chiedo. E io niente. Me la portavo a letto, nel senso che mi  addormentavo pensandola, e mi risvegliavo con le dita che arruffavano i suoi capelli ed invece erano i ciuffi del cane Bobo. Così un  giorno, una settimana circa dopo la scenetta nell’emiciclo, durante una bella partita tra ex liceali, qualcuno entrando a gamba tesa mi  frustò il ginocchio. Ero caduto a terra come un sacco pieno di dolore. Come il professore. Tirandomi su si accorsero che singhiozzavo, e si spaventarono. Ma non era il ginocchio. E non avevo neppure le parole per dirlo a me stesso quello che provavo. A scoppio ritardato, come sempre. Ghiaccio bollente. Mi passò presto. E quando lei mi chiese se volevo andare anche io a trovare il professore, lei ed io da soli? Dissi no, avevo gli allenamenti. Di che? Non mi allenavo, tranne che a nascondino. Così lei si allontanò, con quei crini ondeggianti, quella pelle che rifletteva l’oro dei capelli e tutto il resto dell’attrezzatura buona a rendere un giovanotto una debole larva:

 – Io la musica son ch’ai dolci accenti so far tranquillo ogni turbato core…poss’infiammar le più gelate menti- mormorai a memoria mentre se ne andava, perchè questo mi pareva lei.

Digito il nome del professore. Ed esce la sua foto, e tutta la sua storia accademica, ed anche quella umana. Ed altre foto, da giovane, com’eravamo stati tutti. In fondo io l’avevo incarnata la sua massima. Traboccavo d’amore per lei e non l’ho mai dichiarato. Forse lui aveva torto, ed io ragione. Io ho avuto successo e lui no. Io non sono impazzito e lui si. Per essermi tenuto tutto in corpo, lei l’ho persa. Io scrivo da far pena lui non si può leggere, fa diventare verdi d’invidia. Io adesso le telefono e le dico che ho letto il suo libro, le dico chi sono, senza trattenermi. Le salto addosso appena la vedo, la getto sul “marmo del banco” e la ascolto, finchè tutta la musica che mi ha negato rifluisca verso la mia mente gelata, annichilita da anni di storie scritte con le viscere in mano, tutto un fiorire di mani bocche pance cuori spiriti toccati. Mi ci vuole un busto, per rientrare dello sfogo di passioni facili, e riuscire ad esprimere la passione vera della mia vita: la scrittura del mio professore, il suo contrappunto fedele. I suoi passi indietro per non fare ombra alle emozioni, i suoi fatti narrati puri, senza interferenze, le storie limpide, asciutte, trattenute, come dice di lui la mia amata: quando il suo sguardo di acquemarine invece che gelido si levava compassionevole su un mondo che è già di per sé narrazione.

Non la chiamo con il telefono. La chiamerò d’ora in poi, con un racconto.

 

Sara Milla- saroide@katamail.com

 

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