Quando si ha la ventura di vivere novant’anni c’è la possibilità, che non credo sia poi un gran privilegio, di assistere ad una sorta di “prova generale” della propria commemorazione, di dover prendere atto di epitaffi e anticipazioni biografiche. Ed, ovviamente, di poterne (o doverne) fare puntualizzazioni e rettifiche.
Premetto che, quale che sia il giudizio che l’altro giorno in tanti hanno avuto occasione di pensare e di esprimere sul mio conto, ne sono grato a tutti, perché c’è da essere grati a chi si è accorto della nostra esistenza ed ha cercato, comunque giudicandola, di capirla.
Ma, questo non è un ringraziamento, né generico né particolare. Di particolare c’è il grazie ulteriore che debbo a chi si è espresso sul mio conto, dandomi occasione di guardar meglio me stesso e quel che sono stato.
Qualcuno mi ha fatto gli auguri e mi ha voluto definire in questa occasione come “il Radicale che…”.
Dico subito che non intendo minimamente disconoscere nulla del mio passato. Ma chi mi definisce “il Radicale in lotta per la giustizia” sbaglia e mi costringe ad una sorta di rettifica.
Certo sono stato Radicale. Lo sono stato finché c’è stato un partito, qualcosa che potremo correttamente definire una posizione politica, lo stare da una certa parte, con certi propositi, militare, sperare. E ritenere di potere così, stando da quella “parte” adempiere ai doveri che comporta l’essere uomo libero.
Ho speso nel Partito Radicale i migliori anni della mia vita. Ho creduto in quell’esperienza finché è stata l’esperienza, il tentativo di costituzione di una forza politica liberale, progressista, capace di concorrere in qualche misura ad un nuovo equilibrio, ad un nuovo corso della politica del nostro Paese. Ho tardato a prendere atto che questa prospettiva non esisteva, che il partito Radicale non la perseguiva, perché non esisteva e non voleva esistere un partito cui dover dare quel nome.
Tardai a prendere atto ed a compiere il dovere di darne atto alla gente, agli altri, finché fu Pannella, a dichiarare ed imporre, proclamando che il partito doveva essere altro che un partito, senza poi, precisare mai che cos’altro dovesse essere, meno, forse che per Lui stesso.
Fui allora praticamente espulso (dovrei forse dire “interdetto”, “scomunicato”), da un partito di cui osavo e perché osavo ritenere la sopravvenuta inesistenza.
Avrei dovuto sbattere la porta andandomene.
Da allora in quel che restava in quel partito-non partito tutto fu fatto e detto per occultare l’avvenuta fine di esso e, allo stesso tempo, per farsi beffa dello stesso “carattere” (transnazionalista, transpartitico) con il quale si era provveduto a soffocarlo. Non è qui ed ora che debbo tornar a sottolineare il grottesco, il pirandelliano di questa situazione. Né tocca a me accertare e rilevare il giuoco poco decente delle scatole cinesi con il quale fu occultato quanto restava del partito, cioè, proprio “la roba.”, il saldo che transnazionalmente o transpartiticamente si trovò così il modo di incassare o, magari di tesaurizzare.
La storia di quanto avvenne dal 1988 in poi sotto quell’etichetta non mi appartiene e sento fastidio ogni volta che qualcuno finisce per qualificarmi “Radicale”, dando per ammessa una attualità del significato che non c’è, non è possibile e nella quale non mi riconosco ed alla quale non mi lega né tanto né poco il mio passato, per il semplice fatto che da allora “radicale” può considerarsi attuale solo come inganno, se non come truffa.
Quegli anni, almeno dallo scioglimento pseudo transnazionale-transpartitico ad oggi (o, magari, a ieri, alla morte di Marco Pannella), la genericità, addirittura ridicola, se non truffaldina, l’approssimazione, la comunicazione farsesca del nulla o, cosa non dissimile, della stessa comunicazione, hanno fatto sì che, aver voluto tenere in piedi la sigla di ciò che si era voluto intenzionalmente distruggere è valso a togliere ogni vero significato, ogni valore alla parola “Radicale”, del resto coniata per individuarne quel nuovo partito. Così “Radicale” è divenuto uno degli strumenti della comunicazione del nulla o peggio.
Distrutto il partito attribuendogli funzioni e qualifiche magniloquenti ed inesistenti, per occultare la vacuità del permanere della sigla e, magari le furbesche operazioni delle scatole cinesi, si è finito per togliere ogni valore, ogni significato alla parola “Radicale”, che non sia quello della dissimulazione ed ahimè, dell’imbroglio.
Dico questa cosa con dolore, soprattutto perché sono costretto così a ferire quelli che, dell’inganno sono vittime, e non artefici, e, sono approdati al Partito Radicale (cosiddetto) quando non c’era più, convinti, magari, di trovarvi la terra promessa a sé stessi magari da quei discorsi privi di senso e di significato ma non di capacità ci convinzione.
Può darsi che di quell’esperienza, di quel partito, rimanga, in fondo, quanto sempre può esserci di positivo persino nell’inganno di cui sono vittime gli accoliti delle comunità senza senso e verità. A questo “candore di fondo” degli ingannati voglio rendere omaggio, ma non simulando di essere io stesso ingannato e divenendo, così, ingannatore.
Non mi dite quindi “Radicale”, che nulla significa per me di buono, anche se esserlo stato, nel senso dell’appartenenza e della militanza è cosa, oltre che vera, anche tale da non dover essere da me nascosta ma ricordata con commozione, anche se con il dispiacere della sconfitta e di quel tanto di beffa subìta.
Spero che le vicende di cui sento parlare in questi giorni, delle prodezze degli eredi delle scatole cinesi per il maneggio della “roba” radicale, possano essere presto dimenticate.
Agli amici che, magari, non hanno conosciuto il Partito Radicale quando c’era, ma solo l’inganno di farlo passare per esistente quando non c’era più, voglio dire che questo mio giudizio non implica certo una menomazione del riguardo che devo avere per il loro impegno morale e politico. Né è poi un gran merito aver subìto meno a lungo un inganno poiché debba avere nei loro confronti una qualsiasi prevenzione o solo possa immaginarla. Ma dall’inganno o dal residuato di esso mi auguro che si liberino perché ho fede nella ragione e speranza, sempre, nei miei simili.
Mauro Mellini