Attento ma tranquillo. Come se fosse sì qualcosa d’interessante, ma come se la vicenda non lo riguardasse direttamente. Guarda un paio di volte l’orologio. Lo si vede scambiare qualche parola con la guardia. Così è apparso ieri in video conferenza nel corso del processo celebratosi presso la Corte d’Assise d’appello di Palermo, il “capo dei capi”, Totò Riina, soprannominato “u curtu”, per via della sua altezza o conosciuto anche come “la Bestia”, per la ferocia con la quale portò il clan dei corleonesi al vertice di Cosa Nostra, dopo una sanguinosa guerra di mafia. Infastidito, invecchiato e stanco, è apparso Pippo Calò, il cassiere della Mafia, conosciuto come “la salamandra”, per la sua capacità di uscire indenne dalle situazioni più pericolose. Accanto a lui, nella stanza del carcere allestita per la videoconferenza, il suo difensore, l’avv. Mauro Gionni. Era vuota invece la stanza che avrebbe dovuto ospitare Bernardo Provenzano. Binnu u tratturi (Bernardo il trattore, colui che spianava i suoi nemici), non ha assistito all’ultima udienza del processo che ha visto alla sbarra i tre capimafia, per la strage compiuta il 29 settembre del 1981 a San Giovanni Gemini (Agrigento), quando i killer che dovevano uccidere Calogero “Gigino” Pizzuto (l’uomo che secondo i pentiti era il numero 3 di Cosa Nostra dell’epoca, dopo Bontate ed Inzerillo), all’interno del bar Reina colpiscono a morte anche due innocenti, Michele Ciminnisi (nella foto in alto) e Vincenzo Romano. Quella sera, il gruppo di fuoco composto Gigi Garofano, Calogero Sala, Rosario Corsi, e Lillo Lauria (successivamente morti ammazzati), accompagnati in auto da Ciro Vara (divenuto poi collaboratore di giustizia), dovevano portare a termine la loro missione di morte, uccidendo quel Calogero Pizzuto, capo mandamento di Castronovo di Sicilia, che dopo la morte di Stefano Bontate, non si era presentato alla convocazione da parte di Michele Greco, firmando così la propria condanna nel corso di quella guerra di mafia che aveva visto contrapposti i corleonesi di Totò Riina e Provenzano, al gruppo di Stefano Bontate, Cristina e Badalamenti.
Un omicidio ordinato– secondo quanto narrato dai collaboratori di giustizia – da Bennardo Provenzano, il quale già qualche mese prima della strage, aveva incaricato Intile Francesco per compiere il delitto. A contestare la tesi dell’accusa, il difensore di Provenzano, avvocato Rosalba Di Gregorio, che ha spiegato come stando alle dichiarazioni rese dallo stesso Vara, Cosa Nostra si era strutturata con un sistema verticistico, formato dalla Commissione Regionale (Cupola), la Commissione Provinciale (quella di Palermo) e le Provincie (i rappresentanti delle altre provincie siciliane). Un sistema secondo il quale, gli unici organismi che avrebbero potuto decidere sull’eliminazione del capo mandamento di Castronovo di Sicilia (Pizzuto), potevano essere soltanto la Provincia di Agrigento (nella quale ricadeva il mandamento di Castronovo di Sicilia) o la Commissione Regionale. Organismi dei quali il Provenzano non faceva parte. Secondo l’accusa invece, se anche Provenzano non faceva formalmente parte della Commissione Regionale, non v’è dubbio che in quel preciso momento storico erano già i corleonesi ad aver esautorato (a colpi di lupara –ndr) i vecchi boss mafiosi e che proprio Provenzano e Calò, erano ai vertici del gruppo dei corleonesi comandato da Riina. Del resto, un interesse da parte della Commissione Provinciale di Palermo nell’eliminazione del capo mandamento di Castronovo di Sicilia, c’era, visto che successivamente – come affermato dai pentiti – lo stesso mandamento sarebbe poi finito annesso a quello di Caccamo (Commissione Provinciale di Palermo). E proprio dalle dichiarazioni dei pentiti, era emerso un fatto inedito. La determinazione a commettere altri omicidi, non portati a termine a seguito dell’intercessione di esponenti mafiosi che avrebbero garantito alla fazione vincente (corleonesi) per due soggetti i quali erano stati vicini al gruppo perdente del quale faceva parte il Pizzuto
L’avvocato Di Gregorio, riferendosi proprio ai pentiti, ha rimarcato come nessuno di loro avesse mai riferito di aver assistito al presunto incontro tra i tre boss ieri alla sbarra, nel corso del quale sarebbe stato deciso l’omicidio del Pizzuto. Ne si è mai saputo dove e quando sarebbe avvenuto l’incontro. Un argomento, quello dei collaboratori di giustizia, ampiamente approfondito dall’avvocato Mauro Gionni, il quale, in videoconferenza e alla presenza del suo assistito, Pippo Calò, ha fatto notare alla Corte che il pentito Guglielmini, al quale aveva fatto riferimento il Pm a proposito di un incontro avuto con il Calò – alla presenza di un altro esponente di Cosa Nostra (Cangemi), nel corso del quale il Guglielmini avrebbe riferito a Calò della vicinanza del Pizzuto a Bontate -, non venne mai ascoltato nel processo di 1° grado. Pertanto, non si era potuto interrogare il teste, al fine di stabilire come e quando avvenne l’incontro. Peraltro, la vicinanza del Pizzuto al Bontate, era nota a tutti, visto che in precedenza ne aveva già parlato Tommaso Buscetta. Tra gli accusatori di Pippo Calò, indicandolo tra i vertici di mafia, anche il pentito Giovanni Brusca. Secondo quanto riferito in aula dall’avvocato Gionni, proprio Brusca – oltre ad affermare di non conoscere gli aspetti del presunto incontro nel corso del quale si sarebbe decisa l’eliminazione del Pizzuto -, avrebbe riferito di un particolare importante (e a nostra memoria inedito), che porterebbe ad escludere la presenza del Calò ad incontri finalizzati a decidere sulle sorti di Gigino Pizzuto: Calò, doveva essere eliminato!
E proprio lo stesso Brusca, riferendosi alla partecipazione di esponenti mafiosi nelle Commissioni, aveva escluso che di queste potesse far parte chi a breve doveva essere ucciso. A carico di Calò dunque, le dichiarazioni di Gugliemini, contestate dall’avvocato Gionni. Ciro Vara, il quale le notizie le apprende da Madonia, non fa comunque mai riferimento ad un coinvolgimento di Calò nella vicenda. Singolare – secondo l’avvocato Gionni – il fatto che il gruppo di fuoco (Gigi Garofano, Calogero Sala, Rosario Corsi, Lillo Lauria) che prese parte alla strage, venne successivamente eliminato per aver compiuto delitti non autorizzati dalla Commissione.
Contestate dunque dai difensori degli imputati le dichiarazioni rese dai pentiti contro i tre boss di Cosa Nostra.
Ad illustrare le conclusioni della parte civile, l’avv. Danilo Giracello, difensore di fiducia di Romano Salvatore, e in sostituzione del legale dei Ciminnisi, avv. Repici. Secondo l’avv. Giracello, sulla base degli elementi di fatto emersi nel corso del dibattimento, risulta pienamente provata la penale responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai fatti delittuosi ascrittigli in rubrica, pertanto del tutto infondati appaiono gli appelli proposti dagli imputati Riina e Provenzano avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Assise di Agrigento in data 07.12.2010, mentre merita accoglimento, l’appello del P.M. avverso l’assoluzione dell’imputato Calò Giuseppe. La compiuta (e complessa) istruttoria dibattimentale – secondo l’avv. Giracello – ha consentito di ritenere provata l’ipotesi accusatoria secondo cui, gli imputati in concorso fra loro avrebbero, nella qualità di componenti dell’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra, deliberato la morte di Pizzuto Calogero, detto Gigino. I fatti di cui alle imputazioni sono provati. Tutti i testi escussi e le dichiarazioni rese nella fase delle indagini, i cui verbali sono sstati acquisiti in sostituzione dell’impossibilità conclamata della loro audizione dibattimentale convergono verso la piena conferma dell’ipotesi d’accusa.
È stato dimostrato che Gigino Pizzuto, anche con la produzione delle sentenze del maxi, era capo del mandamento di Castronovo di Sicilia, ricadente nel territorio della Provincia di Palermo; che egli era in stretti rapporti con Bontate e Inzerillo, come confermato dalla stessa vedova Pinella Elena e da coloro che vennero sentiti dai Carabinieri nell’immediatezza dei fatti; che più volte venne invitato vanamente a prendere le distanze dal gruppo di potere Bontade-Inzerillo; che “i corleonesi” (ed in primis Riina e Provenzano) unitamente ad altri esponenti della commissione provinciale di Palermo (tra i quali certamente Calò) intendevano esercitare un controllo militare sul territorio in cui ricadeva il mandamento di Gigino Pizzuto. Come dimostrano in particolare i racconti dei collaboratori Vara e Giuffrè. Il primo narra, per averlo conosciuto direttamente, di come un personaggio di spicco della famiglia mafiosa di Cammarata – San Giovanni Gemini, tale Lo Sardo Costantino, il quale era legato al gruppo della mafia “vincente” diede appoggio logistico ed un rifugio ai killers, consentendone la fuga. Mentre Giuffrè ha narrato non già di fatti de relato, ma di come un mese prima della strage, e precisamente nel mese di agosto 1981, si sia recato insieme a Ciccio Intile a San Giovanni Gemini alla ricerca di Gigino Pizzuto, sapendo con largo anticipo della decisione assunta anche dagli imputati di eliminarlo e di rideterminare (ampliandoli) i confini del mandamenti di Caccamo. Dove al vertice era stato collocato (Intile appunto) un uomo di fiducia proprio del gruppo vincente.
Riferendosi poi alla censura contenuta nell’appello Provenzano circa la nullità delle testimonianze raccolte malgrado la rinuncia della difesa che le aveva richieste, l’avv. Giracello fa rilevare che ai sensi dell’art. 495 comma 4 bis 4-bis. “Nel corso dell’istruzione dibattimentale ciascuna delle parti può rinunziare, con il consenso dell’altra parte, all’assunzione delle prove ammesse a sua richiesta”; d’altronde la giurisprudenza della Cassazione ha affermato che nel caso di rinuncia ad una prova, la controparte debba essere sentita prima che si adotti il provvedimento di revoca, in quanto la prova, una volta ammessa, non è più nella disponibilità della parte che l’aveva richiesta. Dopo aver citato sentenze in merito, il legale di parte civile ricorda che la regola la prova è ammessa non solo nell’interesse della parte che la propone, ma anche della giustizia e della verità, per cui la sua estromissione è soggetta all’adesione della controparte e del giudice, passando dunque alla richiesta che la Corte, affermata la penale responsabilità di tutti gli imputati Riina Salvatore, Provenzano Bernardo e Calò Giuseppe rigetti gli appelli proposti dai primi due ed accolga l’appello del P.M. avverso l’assoluzione di Calò Giuseppe, con conseguente condanna di tutti gli imputati.
L’unico a non avviarsi alle conclusioni, il difensore di Totò Riina, il quale ha dichiarato di non essersi preparato, avendo ritenuto che non si trattasse dell’udienza conclusiva. Poco dopo, Riina chiedeva di poter abbandonare la videoconferenza. La Corte, dopo un consulto in Camera di Consiglio, pronunciava la sentenza: Condanna all’ergastolo per Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, assoluzione per Giuseppe Calò. Confermata dunque la sentenza di 1° grado della Corte d’Assise di Agrigento.
Soddisfatto l’avvocato di parte civile Danilo Giracello. Non v’è dubbio infatti che si tratti di una sentenza importante al fine di veder riconosciuti tutti i diritti della parte civile. Poiché, se è pur vero che quasi certamente si dovrà aspettare un pronunciamento della Cassazione, la sentenza di ieri rappresenta una pietra miliare nel processo per la strage di San Giovanni Gemini. Un successo per il giovane e brillante avvocato Danilo Giracello, il quale, con molta umanità e modestia, nonostante confermi l’importanza della sentenza e di come la stessa sia frutto di anni di lavoro, indica nei familiari delle vittime di mafia che con coraggio hanno deciso di andare fino in fondo per veder compiuto un atto di giustizia, i veri protagonisti di questa storia, ai quali va dato il giusto riconoscimento.
Spenti gli schermi della videoconferenza e uscita dall’aula la Corte, restano per un po’ gli avvocati delle parti in causa e i due fratelli Ciminnisi, Giuseppe e Carmelo, figli di quel Michele Ciminnisi ucciso dalla ferocia di killers che, incuranti di quanti si trovavano sulla loro traiettoria di fuoco, portavano a termine la loro missione di morte uccidendo Gigino Pizzuto.
Giuseppe non è più il ragazzino al quale tanti anni fa fu ucciso il padre “per caso”. Quasi fosse un fatto normale che accada… Lo avevamo già incontrato il giorno della sentenza ad Agrigento, ci siamo visti nel corso di questi due anni, abbiamo seguito le udienze a Palermo.
D – Giuseppe, finalmente oggi si è arrivati alla sentenza in Corte d’Assise d’appello…
R – Sì. Oggi si è messo un punto importante in questa storia che ha cambiato la mia esistenza. È stata ribadita per la seconda volta la verità ed è stata fatta giustizia. Nulla potrà restituire le vittime ai familiari, ma fare giustizia dei delitti sì. Questo lo si può fare…
D – A cosa pensi adesso?
R- Penso a coloro i quali ho incontrato nel corso di questi anni. A Giovanni Falcone al quale chiesi che venissero assicurati alla giustizia gli assassini di mio padre, non sapendo che di lì a poco sarebbe stato ucciso anche lui dalla mafia. Ricordo il senso d’impotenza e di scoramento dopo le stragi nelle quali morirono Falcone, Borsellino e altre vittime innocenti. Oggi, come dopo la sentenza emessa ad Agrigento, posso solo dire che anche altri magistrati hanno avuto il coraggio di fare quello che a Falcone e Borsellino fu impedito con il tritolo. Oggi non voglio ricordare i momenti in cui mi sono sentito abbandonato dallo Stato, anche se so che ci sono ancora molte battaglie da fare affinchè non esistano più vittime di mafia di serie A e vittime di mafia di serie B. quella di oggi, non è una vittoria dei familiari di Romano o di Ciminnisi…è una vittoria che voglio dedicare a tutti i familiari di vittime innocenti di mafia… A titolo personale invece, voglio ringraziare una persona alla quale devo molto… Una persona della quale sono fiero, che in tutti questi anni mia ha sorretto spingendomi ad andare avanti. E non chiedermi chi è… Come ti dissi nel dicembre 2010, quando venne emessa la prima sentenza, preferisco tenerlo per me… Io so a chi devo tutto questo…
Fuori da tribunale, l’immensa panca di marmo con su scritti tanti nomi, ricorda i caduti nella lotta contro la mafia. Nomi importanti che hanno segnato con il loro sangue le pagine di questa nostra storia. Il sole scottante acceca, mentre il sudore scorre lungo la schiena. Ma è un sudore freddo. Quasi un brivido. Chissà perché penso a questi piccoli eroi di ogni giorno. A coloro i quali varcano la soglia di una caserma, di una questura, di un tribunale, con un solo desiderio: Giustizia!
Questi piccoli eroi, le cui storie non verranno quasi mai raccontate, se non per quello che loro stessi o i loro avvocati diranno. Spesso infatti, così come era già avvenuto ad Agrigento quando venne pronunciata la prima condanna; così come avvenuto ieri in un’aula semideserta; i nostri piccoli eroi, sono lasciati da soli. Pochi testimoni ieri. La Corte, gli avvocati, i due figli di una delle vittime innocenti, un carabiniere, un paio di rappresentanti degli organi stampa. E già questo sembra un miracolo… Non c’è il nome del grosso politico coinvolto in storie di puttane… No. Qui c’era il sangue, la ferocia, il dolore. Non si fa audience…
Con il dorso della mano caccio via il sudore dalla fronte. Quasi a voler cacciare un pensiero molesto. Il sudore va via, il pensiero no… Esattamente come quel 7 dicembre del 2010, quando dopo la condanna in primo grado di Riina e Provenzano, mi chiesi quali prezzi avesse dovuto pagare quest’uomo per vedersi riconosciuto un attimo di giustizia. Ancora una volta provo orrore per tutto quello che gli è stato fatto. E ancora una volta, non mi riferisco solo ai killers che gli hanno portato via il padre…
Gjm
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