Mentre Roma Capitale assegna concessioni sul litorale di Ostia in violazione della normativa europea, l’assenza di piani approvati e di tutele balneari espone cittadini e istituzioni a rischi giuridici, sanitari e penali. A segnalarlo, l’avvocato Fabio Maria Vellucci

Lidi senza legge: Ostia e il grande inganno balneare. Tra violazioni europee, gare fantasma e rischio per l’incolumità pubblica
Nel panorama normativo italiano, il caso del litorale romano – e in particolare delle concessioni demaniali marittime a Ostia – rappresenta oggi un laboratorio di disfunzione istituzionale, opacità amministrativa e violazione sistematica del diritto europeo.
Lo mostra chiaramente il lavoro giuridico svolto da Fabio Maria Vellucci, che smonta punto per punto la presunta legittimità degli atti adottati da Roma Capitale a partire dal 2024.
Il suo intervento, mette in luce un sistema normativo imploso, nel quale le concessioni demaniali marittime rilasciate dal Comune di Roma Capitale nel 2025 risultano giuridicamente nulle, prive di fondamento normativo e in palese contrasto con il diritto europeo e nazionale.
Secondo quanto ricostruito da Vellucci, tali concessioni:
- Violano la Direttiva Servizi 2006/123/CE, che impone la libera concorrenza e il divieto di rinnovi automatici;
- Si pongono in conflitto con gli articoli 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, che tutelano la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi;
- Ignorano deliberatamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha più volte ribadito l’incompatibilità di proroghe generalizzate con il diritto comunitario;
- Soprattutto disattendono la sentenza n. 17/2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che ha sancito la fine della validità automatica delle concessioni balneari in assenza di procedure selettive ad evidenza pubblica.
A tutto ciò si somma – come sottolinea ancora l’avvocato Vellucci – una gravissima omissione strutturale: l’assenza di un piano organico per la sicurezza balneare, responsabilità che oggi grava integralmente sui Comuni, i quali però appaiono giuridicamente e funzionalmente impreparati a reggere tale carico.
Il risultato è un quadro devastante: un sistema formalmente privo di legittimità, materialmente esposto a gravi responsabilità penali (in caso di incidenti o omissioni), e istituzionalmente paralizzato proprio in uno dei tratti più strategici del demanio costiero nazionale. Ma esaminiamo il tutto in maniera dettagliata.
Concessioni demaniali: l’illegalità strutturale
La Delibera di Giunta Capitolina n. 136/2024, seguita dalla n. 44/2025 e dagli avvisi pubblici 4481 e 4788 del 2025, ha regolato il rilascio delle concessioni balneari.
Ma secondo Vellucci, si tratta di un impianto giuridicamente inesistente: i provvedimenti poggiano sul nulla, mancano dei presupposti essenziali e aggirano norme e giurisprudenza con formule giuridiche creative che non resistono a un esame appena più approfondito.
a) Inesistenza del PUA: l’atto che non c’è
Il PUA (Piano di Utilizzazione degli Arenili), previsto dalla normativa regionale e ritenuto condizione necessaria per ogni intervento concessorio, non è mai stato adottato.
Secondo la DGR Lazio 1161/2001 e la Delibera del Consiglio Regionale n. 9/2021, senza un PUA regolarmente approvato non è giuridicamente possibile delimitare le aree concessibili.
Eppure il Comune ha proceduto a rilasciare concessioni, inventando per via amministrativa ciò che urbanisticamente non esiste.
Siamo dunque di fronte a concessioni che si fondano su un piano fantasma: una contraddizione giuridica che – sottolinea Vellucci – mette in discussione l’intero impianto autorizzativo.
b) La finzione giuridica delle concessioni dopo il 31.12.2023
Con la sentenza Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17/2021, si è stabilito in modo definitivo che ogni proroga automatica delle concessioni balneari è nulla.
Le concessioni dovevano cessare al 31 dicembre 2023.
Tutto ciò che è stato disposto dopo tale data, se non coerente con la nuova normativa di recepimento (L. 166/2024), è giuridicamente privo di effetto.
Tuttavia, il Comune di Roma ha continuato ad operare come se nulla fosse accaduto, riattivando procedimenti, redigendo avvisi pubblici, creando nuove graduatorie.
Secondo Vellucci, questo non è solo illecito, ma surreale: «si amministra come se la giurisprudenza non esistesse, in una bolla autoreferenziale che ignora l’ordinamento vigente».
c) La falsa concorrenza e il feticcio della “royalty”
Altro punto critico è la presunta procedura comparativa adottata dalla DGC 44/2025.
In teoria, essa dovrebbe garantire trasparenza e concorrenza. In realtà, favorisce chi può offrire la maggiore somma al Comune, sotto forma di una cosiddetta “royalty”, mutuata arbitrariamente dalla terminologia della proprietà intellettuale.
Questa “royalty” – secondo Vellucci – non ha alcun fondamento nel diritto amministrativo dei beni pubblici: si tratta di una prestazione patrimoniale imposta per ottenere un bene demaniale, dunque un corrispettivo anomalo e probabilmente illecito.
Inoltre, il criterio del “massimo fatturato” non premia l’efficienza gestionale, bensì la capacità economica, snaturando il principio stesso di comparazione imparziale delle offerte, come imposto dalla Direttiva 2006/123/CE.
d) Graduatorie provvisorie, effetti permanenti
Le graduatorie provvisorie emanate su questa base producono effetti reali: escludono operatori, favoriscono altri, determinano la futura assegnazione di beni pubblici.
Tutto ciò avviene sulla base di atti che mancano dei presupposti normativi, creando un paradosso giuridico: l’illegittimità formale degli atti non impedisce loro di produrre effetti materiali.
Secondo Vellucci, siamo di fronte a un sistema che agisce come se fosse legittimo, ma senza essere mai passato attraverso il vaglio della legalità.
Una finzione amministrativa che, pur priva di validità giuridica, condiziona l’accesso a un bene pubblico e le scelte imprenditoriali di numerosi operatori.
e) La condanna della giurisprudenza e l’obbligo di disapplicazione
Infine, la sentenza CdS 10131/2024 ha stabilito con chiarezza che l’art. 37 del Codice della Navigazione, laddove consente proroghe automatiche e affidamenti diretti, deve essere disapplicato.
Questa sentenza non è ignorabile: impone all’Amministrazione di non applicare una norma nazionale in contrasto con il diritto europeo.
Eppure, il Comune di Roma Capitale ha continuato a comportarsi come se l’articolo fosse in vigore, reiterando affidamenti che nessun giudice oggi riterrebbe legittimi.
Per Vellucci, questo comportamento non è solo negligente, ma giuridicamente doloso: rappresenta una cosciente elusione dell’obbligo di legalità. E non finisce qui.
La sicurezza balneare come simulacro normativo
Alla luce della decadenza automatica delle concessioni demaniali al 31 dicembre 2023, sancita dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, si sarebbe reso necessario un intervento tempestivo, organico e giuridicamente fondato da parte dell’Amministrazione pubblica per ridefinire il regime di sicurezza e soccorso in mare.
Questo non è accaduto.
E il vuoto non è solo amministrativo: è giuridico, istituzionale e morale.
È quanto emerge con forza dalle osservazioni di Fabio Maria Vellucci, che smaschera l’apparente ordine costiero come una facciata amministrativa, sotto la quale si agita un sistema completamente scoperto sul piano delle responsabilità e degli obblighi pubblici.
a) L’inadempienza del Comune e della Capitaneria: un silenzio che diventa colpa
La cessazione della titolarità concessoria ha determinato un effetto chiaro e inequivocabile: la responsabilità per la sicurezza balneare ricade ora interamente sull’ente proprietario, ossia il Comune di Roma Capitale, fino a eventuale e valida riassegnazione delle aree.
E tuttavia, nessun atto giuridicamente efficace è intervenuto a chiarire o ridefinire tale responsabilità.
Come nota Vellucci, tanto il Comune quanto la Capitaneria di Porto di Roma-Fiumicino – organo periferico della Direzione Marittima di Civitavecchia – non hanno esercitato i poteri di ordinanza e vigilanza secondo i criteri di legalità, attualità e competenza.
La Direttiva CGCP del 16 aprile 2025, che avrebbe dovuto aggiornare le disposizioni in materia, è rimasta ancorata a schemi abrogati dalla giurisprudenza, perpetuando una rappresentazione fittizia dell’ordine normativo costiero.
Non a caso, essa è stata oggetto di istanza di annullamento, proprio per difetto di presupposto giuridico e inattualità normativa.
In altri termini: le autorità hanno agito come se nulla fosse cambiato, ignorando la cessazione delle concessioni, eludendo l’obbligo di ridefinizione delle responsabilità e simulando la continuità di un potere che, giuridicamente, non possiedono più.
b) Le ordinanze inefficaci: atti amministrativi senza potere
Nel 2025 sono state emesse due ordinanze formalmente volte a garantire la sicurezza balneare:
l’Ordinanza n. 66/2025 della Capitaneria di Porto di Roma,
e la sindacale n. 66/2025 del Comune di Roma.
Tuttavia, entrambe risultano inefficaci per motivi distinti ma convergenti.
Da un lato, la CP ha agito in carenza di potere sostanziale, facendo riferimento a una direttiva (la CGCP di aprile) priva di validità giuridica, basata su presupposti ormai superati.
Dall’altro, il Comune ha emesso un’ordinanza sindacale su una materia – la sicurezza in mare – che non rientra nella sua competenza esclusiva, spettando per legge alla Capitaneria di Porto.
Ci troviamo quindi in una terra di nessuno normativa, in cui gli enti:
emettono provvedimenti privi di legittimazione,
occupano sfere di competenza non proprie,
e soprattutto non garantiscono alcuna reale tutela per la sicurezza dei cittadini.
Secondo Vellucci, questo non configura solo inefficienza, ma usurpazione di funzione: una forma di abuso amministrativo larvato, che espone l’ente e i funzionari a precise responsabilità penali e risarcitorie.
c) Pubblica incolumità e responsabilità penale: il diritto penale come limite all’inazione
L’omessa individuazione delle misure concrete di soccorso e prevenzione balneare, nella situazione in cui le aree demaniali risultano sprovviste di titolarità gestionale legittima, non è una semplice manchevolezza burocratica.
Secondo l’impostazione giuridica tracciata da Vellucci, tale omissione può configurare:
il reato di omissione di atti d’ufficio ai sensi dell’art. 328 c.p., per il mancato esercizio di un potere/dovere funzionale in presenza di un obbligo giuridico,
e, nei casi in cui tale omissione generi situazioni di rischio per i bagnanti, il reato di procurato pericolo per la pubblica incolumità, ex art. 437 o 434 c.p., a seconda delle fattispecie.
Inoltre, il mancato accertamento della decadenza delle concessioni da parte della Direzione Marittima e della CP, nonostante formali istanze documentali, aggrava la responsabilità dell’apparato pubblico, che diventa così coautore dell’abbandono normativo delle coste.
Vellucci sottolinea che il rischio non è astratto: un incidente in mare, un soccorso mancato, una vittima – e l’intero sistema, oggi formalmente scoperto, potrebbe crollare sotto il peso di una responsabilità penale, civile e amministrativa incrociata.
L’inerzia istituzionale e il discredito amministrativo
Una crisi della legalità che delegittima la funzione pubblica
Secondo quanto emerge dalle indagini e dalle ricostruzioni giuridiche effettuate da Fabio Maria Vellucci, il caso delle concessioni demaniali sul litorale romano non rappresenta solo una violazione puntuale del diritto, ma una crisi strutturale dell’amministrazione pubblica, che ormai opera in costante divergenza rispetto ai principi costituzionali di legalità, buon andamento e imparzialità.
Nel tentativo di difendere pubblicamente l’operato degli uffici capitolini, l’Assessore Zevi ha più volte richiamato provvedimenti giurisprudenziali come la sentenza CdS 6699/2023, sostenendo che essa legittimerebbe la scelta di bandi annuali. Ma come sottolinea Vellucci, questa interpretazione è strumentale e gravemente distorsiva: la citata pronuncia del Consiglio di Stato si riferiva unicamente a situazioni transitorie, limitatamente al periodo di attesa del Piano di Utilizzazione degli Arenili (PUA), presupponendo che tale piano fosse in via di approvazione.
Nel caso del Comune di Roma, questa condizione non si è mai verificata: il PUA non esiste, e non risulta neppure in fase di elaborazione pubblica.
Dunque, ogni giustificazione basata su quella giurisprudenza è giuridicamente infondata, amministrativamente fuorviante e istituzionalmente ingannevole.
Una macchina amministrativa che resiste alla legalità
Il cuore della denuncia di Vellucci si concentra su un dato ineludibile: la resistenza attiva dell’apparato amministrativo all’applicazione della normativa vigente.
Non si tratta più di disorganizzazione o di inerzia tecnica. Ciò che emerge è una forma di ostinazione sistemica, per la quale:
le norme europee vengono reinterpretate arbitrariamente per preservare assetti consolidati,
le sentenze vincolanti vengono stralciate dai loro contesti per essere utilizzate in funzione legittimante,
e le procedure di evidenza pubblica vengono simulate attraverso bandi formalmente pubblici ma sostanzialmente inaccessibili, per tempi, modalità e criteri.
Questo combinato disposto – fatto di atti illegittimi, pubblicazioni omissive, norme disapplicate, criteri arbitrari e assenza di trasparenza – configura una delle più evidenti violazioni sistemiche degli articoli 97 e 113 della Costituzione, i quali impongono:
il buon andamento della pubblica amministrazione,
l’imparzialità nei confronti degli amministrati,
e la possibilità per il cittadino di agire contro gli atti ingiusti.
Ma come sottolinea Vellucci, quando l’amministrazione si chiude in una logica autoreferenziale, che seleziona la giurisprudenza utile, ignora le pronunce contrarie e perpetua regimi di fatto travestiti da diritto, essa smette di essere “amministrazione” e si fa “potere”. Un potere non più fondato sul diritto, ma sulla perpetuazione di assetti, clientele e modelli di privilegio opachi.
Discredito istituzionale e svuotamento della fiducia pubblica
In tale contesto, secondo Vellucci, il danno più grave non è solo giuridico, ma democratico:
«Quando il cittadino non può più fidarsi della coerenza tra norme, atti e dichiarazioni pubbliche, l’amministrazione cessa di essere garante dell’interesse generale e si trasforma in soggetto autoreferenziale, che si legittima da sé attraverso il proprio arbitrio».
Il discredito istituzionale non è frutto di un incidente amministrativo, ma di una prassi reiterata di opacità, silenzio e manipolazione interpretativa, che lascia le coste di Ostia senza una cornice giuridica legittima, senza un piano urbanistico approvato, senza procedure concorrenziali vere e senza responsabilità chiare sulla sicurezza.
L’effetto è un doppio svuotamento:
del diritto, ridotto a strumento di ratifica di scelte già fatte;
e della cittadinanza, privata della possibilità di partecipare davvero all’accesso e alla gestione del bene pubblico.
Insomma, alla luce di queste circostanze, è urgente un intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e della Corte dei Conti, nonché della Procura della Repubblica per accertare violazioni di legge, sprechi di risorse pubbliche e rischi per la sicurezza dei cittadini. La questione non è più solo amministrativa, ma costituisce un caso esemplare di degenerazione normativa, giuridica ed etica. Il mare, bene comune e risorsa fragile, oggi affonda sotto il peso dell’illegalità.