In anteprima il saggio di Carlo Ruta, Direttore scientifico del Laboratorio degli Annali di storia, che uscirà nel quarto volume degli «Annali di storia dei mutamenti globali».
Dilaga oggi il convincimento che il Mondo sia sprofondato in una nuova guerra fredda, ma le cose non stanno così. La guerra fredda, che per circa 40 anni, dagli ultimi anni quaranta a tutti gli ottanta del Novecento, ha diviso una parte cospicua del Globo in due sistemi contrapposti, militari e politici, quindi in due sfere d’influenza, si è risolta in concreto in una situazione di stallo continuato e di sostanziale equilibrio, retto da complessi sistemi di deterrenze, in grado di stabilizzare e cristallizzare i rapporti di forza. In tale contesto non sono mancate le guerre, da quella di Corea dei primi anni cinquanta a quella del Sud-est asiatico degli anni sessanta-settanta. Si sono aperte inoltre crisi temporanee, anche gravi, come quella di Cuba dell’ottobre 1962, che venne vissuta e viene considerata ancora oggi come la più pericolosa. Ma proprio quella crisi e quei conflitti, localizzati ma dirompenti, danno conto della tenuta strategica di quegli equilibri, garantiti appunto da un quadro complesso di protocolli, riconoscimenti reciproci, veti e controlli incrociati che ponevano anche a frutto il lavoro a tutto campo degli apparati spionistici.
La guerra fredda diventava in realtà uno sfondo, uno scenario immanente, quasi invisibile nella vita quotidiana delle popolazioni di tutti i continenti. Quel curioso stato di «belligeranza», che forniva anche sostrati culturali e antropologici, produceva infatti le condizioni di una nuova normalità,in cui si svolgevano la storia e il vissuto dei paesi. Su quello scenario, tenebroso e influente ma impresso per decenni nell’ordinarietà, si snodavano i movimenti africani di decolonizzazione, le contestazioni studentesche, i polimorfismi del sogno americano, il consumismo, le rivendicazioni di genere, i conflitti mediorientali e la grande stagione dei diritti. Oggi le cose appaiono appunto differenti.
All’invasione russa dell’Ucraina, paese scosso da forti tensioni nazionalistiche, la Nato e l’Unione Europea hanno deciso di rispondere alzando la posta, con una guerra, anch’essa senza esclusione di colpi, fatta di sanzioni e chiusure progressive, ma fatta anche di forniture di armi e equipaggiamenti militari ai resistenti. Il proposito dichiarato dell’Occidente è quello di costringere la Russia a ritirarsi, minacciandone gli assetti finanziari, economici, politici e militari. Si tratta però di un disegno problematico, con prevedibili risvolti autolesionistici, perché stanno chiudendosi da ambo le parti, uno dopo l’altro, spazi di relazione vitali che hanno retto per oltre un trentennio, nonostante le politiche espansive dell’Alleanza atlantica e l’emergere di crisi importanti nell’Europa orientale come quella balcanica degli anni novanta, fino al 2000, quella georgiana del 2008 e quella ucraina dal 2014.
La Russia, paese attaccante, reagisce all’Occidente con l’intensificazione delle operazioni di guerra, con l’annuncio di contro-sanzioni e l’imposizione del rublo negli scambi con l’Occidente, oltre che con gesti simbolici, come la decisione di fuoriuscire, dopo circa trent’anni, dal Consiglio d’Europa, organismo internazionale fondato nel 1949 con il trattato di Londra proprio per scongiurare nel continente situazioni di crisi tra i paesi aderenti. Ma l’Occidente rilancia ancora, con politiche nazionali e concertazioni di riarmo strategico che puntano ad una rivoluzione copernicana degli apparati militari in Europa. Si è allora ad una escalation di fatto, a un conflitto su più campi, economico, politico e propagandistico che s’intreccia pericolosamente con la guerra materiale combattuta nei territori ucraini, con le armi occidentali. Si apre insomma una fase anomala che già da adesso tende a cristallizzare uno scenario estremo e polarizzato, in cui la Russia non recede di un palmo dagli obiettivi militari di fondo, legati al controllo pieno delle province orientali e di aree strategiche del Mar Nero, mentre l’Unione europea, malgrado le remore del cancelliere tedesco e di qualche altro attore istituzionale, rinuncia ad ogni approccio interlocutorio, attivo e tempestivo, coinvolgendosi di fatto nella guerra.
Si muovono invece diplomazie asiatiche e vicino-orientali, cinese, turca e israeliana in particolare. Alcune settimane dopo l’apertura del conflitto vengono a contatto a Roma il consigliere della sicurezza nazionale statunitense Jack Sullivan e il capo diplomatico del Partito comunista cinese Yang Jiechi, ma in una condizione glaciale. A definire i rapporti tra le due massime potenze mondiali rimane in realtà l’intimazione, ben poco diplomatica, della Casa Bianca al governo cinese di Xi Jinping di non sostenere la Russia militarmente, per evitare conseguenze. Ad Ankara i colloqui tra i rappresentanti russi e ucraini, dopo una prima fase di stallo, sembrano imboccare invece una via interlocutoria, con la mediazione personale del presidente turco Erdogan, che ha buoni motivi per proporsi in questa fase come pacificatore, per i rapporti economici nodali che, garantiti storicamente dalle rotte del Mar Nero, legano l’economia turca, oppressa oggi da una forte inflazione, ad entrambi i paesi in conflitto. Ma questa mediazione e altre succedutesi, come quella del premier austriaco, recatosi di persona a Kiev e a Mosca, e quella del segretario dell’Onu Guterres, non hanno prodotto finora esiti sostanziali: si registra infatti solo un mutamento di strategia militare da parte della Russia, che ha smobilitato le armate in alcune aree per intensificare l’attacco su altre linee, soprattutto orientali e lungo la sponda nord del Mar Nero. Permane, in definitiva, una condizione anomala nei contesti occidentali, di una afasia diplomatica determinata dallo scopo comune di incalzare il nemico, in un conflitto che sempre più minaccia di trascendere.
La Russia di Putin, che ha recuperato un paradigma egemonico molto presente nella tradizione zarista, sostiene la legittimità dell’attacco all’Ucraina per diversi motivi di fondo, di fatto connessi. Il primo è costituito dalla situazione nelle repubbliche secessioniste filo-russe di Luhansk e Donetsk, dove dal 2014 è in atto una guerra civile che ha determinato migliaia di morti. I russi parlano, in particolare, di un genocidio in atto, che hanno anche segnalato alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Il secondo motivo è dato dalla decisione del governo ucraino di associarsi alla Nato, come hanno già fatto, nell’Europa orientale, la Bulgaria, la Romania, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovenia, la Slovacchia, la Lituania e la Lettonia. Il terzo è costituito dalla presenza, nei territori del Donbass, nell’Ucraina orientale, di formazioni armate in funzione anti-russa, come nel caso del Reggimento Azof che si richiama all’esperienza di Stephan Bandera, nazionalista ucraino che nel corso del secondo conflitto mondiale, attratto dalle politiche di Hitler, collaborava con gli occupanti nazisti delle Repubbliche sovietiche. In definitiva, sullo sfondo agitato dell’Europa orientale, la scelta di campo dell’Ucraina è stata percepita dal Cremlino come una ulteriore e provocatoria tappa espansiva verso Oriente della più potente organizzazione militare della Terra, quindi una seria minaccia per la propria sicurezza.
Riluttante ad una autentica offensiva diplomatica, l’Occidente replica tuttavia con una rigidità catatonica, bloccando sul nascere ogni possibile iniziativa interlocutoria, con effetti perfino paradossali. In questo scenario, di fatto cristallizzato, si innescano allora processi politici, sociali e culturali le cui conseguenze appaiono sempre più difficili da rimuovere nei tempi prevedibili. La Russia, che per storia costituisce un’immensa area di assimilazione e confronto euroasiatico, oltre che una sponda economica decisiva per l’Europa, si trova degradata dall’Occidente, come mai era avvenuto nei decenni della guerra fredda, ad un irriducibile «Stato-canaglia», bieco e nemico per costituzione. E l’essere collocato in questa categoria, per un paese che non ha mai rinunciato allo status di potenza mondiale, legittimato peraltro dai ruoli che ha mantenuto alle Nazioni Unite, in primis quello di membro permanente del Consiglio di sicurezza, con Stati Uniti, Cina, Francia e Regno Unito, segna già il punto d’innesco di una belligeranza sistemica.
Gli analisti avvertono che le perdite materiali dell’Occidente, causate dalla radicalità delle sanzioni imposte al paese aggressore, saranno sempre più ingenti, per l’importanza rivestita dalla Russia, che occupa circa l’ottava parte delle terre emerse, negli scambi economici globali. Non meno rilevante appare tuttavia la perdita culturale, per il sedimentarsi di un diaframma ideologico che, esploso come un bubbone subito dopo l’invasione militare, non permette a fasce significative di opinione pubblica di percepire con immediatezza l’unità e le connettività del Mondo, tra Oriente e Occidente, e in particolare i sostrati profondi di un paese come la Russia. È il diaframma antropologico che ha impedito, ad esempio, in un recente caso italiano, di riconoscere la prossimità di un Fedor Dostoevskij e la sua adozione piena nei costumi culturali dell’Occidente. Lo stesso diaframma può reggere per Tolstoj, Puskin, Cechov, Tchajkovskij, Stravinsky, per l’Hermitage di San Pietroburgo, il Bol’šoj di Mosca e per tutto ciò che evoca una storia e un ambiente storicamente vicini ma ormai «inaffidabili» e nemici. In definitiva alla faglia materiale e politica dei due sistemi egemonici, atlantico ed euroasiatico, apertasi nell’Europa orientale, si associa una faglia culturale che si alimenta di contenuti ideologici, aggressivi e bellicisti.
Tra il mondo russo e l’Europa atlantica, insieme alla cortina divisoria politico-militare, va aprendosi in realtà uno iato, uno scollamento antropologico appunto, che non si è avuto neppure nei momenti più aspri della guerra fredda. Come Cartagine per la Roma repubblicana interpretata da Catone il Censore, la Russia sta diventando nelle opinioni pubbliche occidentali un mondo biologico e morale inconsistente, da rimuovere. È l’effetto pericoloso di una propaganda che, sempre più compulsiva nell’Occidente e lungo tragitti ideologici già sperimentati, tende a nullificare, in maniera selettiva, tutto ciò che viene rappresentato come nemico.
Da decenni imperversa in realtà una visione del mondo e della geopolitica controversa, viziata da evidenti motivi etnocentrici, che propone l’Occidente come depositario di «valori ultimi» da preservare a costi anche di olocausti nucleari. Seguendo questa visione, Michael Walzer già nei contesti del dopo Vietnam firmava una influente rielaborazione delle guerre giuste nel mondo contemporaneo. A partire dallo jus ad bellum e dallo jus in bello classici, lo studioso americano parlava in particolare di «emergenze supreme» che impongono all’Occidente liberaldemocratico, in maniera legittima, scelte supreme e irrevocabili. Mentre si cercava di fornire un quadro giustificatorio della presenza statunitense in Indocina, s’incubava così una morale interventista che poi, rielaborata negli anni di Reagan, dei Bush e di Clinton, ha finito con il sovvertire le logiche classiche dei conflitti producendo guerre smisurate, auto-legittimate e destinate ad esaurirsi per lo più per sfinimento. E questa sindrome occidentale, che ha provocato forti opposizioni nelle opinioni pubbliche statunitensi, europee e globali, finisce con il cozzare, pericolosamente, con alcune movenze di fondo del mondo russo, sedimentate lungo i secoli attraverso un doppio movimento.
Il primo, di tipo egemonico-paternalistico, connaturato nell’imperialità zarista, cristallizzato nello Stato sovietico dopo Yalta e risorgente nella Russia attuale, interagisce soprattutto con il mondo slavo, riconosciuto come «interno», parte di un sé allargato. È il modo d’essere di un etnocentrismo che spiega, tra l’altro, la problematicità storica del rapporto tra le città di Kiev e Mosca, legate da una vicenda che risale ai secoli dell’Orda d’Oro, quando Kiev, distrutta dai Mongoli, subisce una repentina decadenza mentre Mosca sperimenta una impetuosa crescita urbanistico-demografica, economica e politica. Garantita da tradizioni economico-materiali, che ne hanno fatto storicamente un granaio continentale, e da lunghe vicende sacrali, la Kiev capitale dell’Ucraina tende a rivendicare una sorta di auctoritas politico-morale, per essere arrivata prima, per aver istituito e difeso la cristianità già dal X secolo, dopo la conversione del principe Vladimir I, ma anche per essere patria naturale di narratori emblematici, cantori della steppa, come Gogol, Bulgakov e Babel, oltre che terra d’elezione di altri, come Puškin e Čecov. Mosca incarna invece la potestas di un sistema che, dal principato di Moscovia, liberatosi nel 1480 dalla soggezione dell’Orda d’Oro tataro-mongola, si manifesta dal XVI secolo, attraverso l’espansionismo di Ivan III e poi di Ivan IV, come potenza euroasiatica, istitutiva di un paradigma imperiale sacralizzato che riprende la dottrina bizantina dell’autocrazia di diritto divino tracciata da Eusebio di Cesarea nel IV secolo e ribadita con ulteriori argomenti in età giustinianea. È l’orizzonte in cui si colloca l’idea di una Terza Roma, nell’età di Ivan IV, presente in alcuni testi del monachesimo cristiano-ortodosso moscovita.
Il secondo movimento russo è di arroccamento difensivo nei riguardi dell’Occidente, percepito dagli zar come un pericolo permanente per l’esercizio del proprio imperio, malgrado le aperture di regnanti del XVIII secolo come Pietro I e Caterina II, attratti dalla vita delle grandi capitali occidentali e legati saldamente con gli ambienti illuministici. Anche questo sguardo sospettoso verso l’Europa più nevralgica e industriale nasce dalla storia profonda: dalle stratificazioni culturali dello slavismo, dalle tradizioni separate del patriarcato ortodosso di Mosca, ma soprattutto dal confronto egemonico-militare di secoli, con esiti alterni, che vede più volte la Russia invasa dall’Occidente e devastata, anche quando gli invasori si ritirano sconfitti. Attacchi come quelli portati al paese euroasiatico dal regno di Svezia di Carlo XII nel 1709, da Napoleone Bonaparte nel 1812 e dalla Germania di Hitler tra il 1941 e il 1943, sono la rappresentazione sintetica di una differenza che diventa estraneità e conflittualità. È il quadro di una problematicità che nel suo insistere fonda nei due campi ritrosie, malintesi, pregiudizi e, inevitabilmente, concrezioni ideologico-egemoniche.
È quel che rivela, ad esempio, la guerra di Crimea del 1853-56, combattuta contro la Russia da Turchia, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna, alla fine vincitori. Si tratta dell’antefatto forse più istruttivo dei conflitti del Novecento, per la modernità dei mezzi bellici impiegati, soprattutto occidentali, la pluralità estesa degli scenari di combattimento e il ruolo nuovo assunto dalla stampa nella narrazione degli eventi alle opinioni pubbliche, attraverso i servizi di inviati e osservatori. Ma questa vicenda mette in luce anche, in maniera quasi didascalica, i sostrati che rendono difficile la coesistenza dell’Europa occidentale e la Russia, il formarsi cioè di faglie che, apparentemente di poco conto, tendono ad arroventarsi, per erompere infine in guerre. L’atto dello zar Nicola I che, contrariato da alcune concessioni della Turchia alla Francia di Napoleone III, cui garantisce la gestione cattolica dei luoghi santi in Palestina, occupa nel 1853 i principati danubiani di Moldavia e Valacchia, vassalli dell’impero ottomano, è temerario e spavaldo, in linea con la tradizione e solo un minuscolo tassello nella mappa delle aggressioni, delle sovversioni, delle rivendicazioni territoriali e delle crisi europee di metà Ottocento. Ma la reattività radicale della Francia e della Gran Bretagna, che paventano un piano russo per estendere la propria l’egemonia nei Balcani e, attraverso i Dardanelli, sul Mediterraneo, porta a esiti paradossali. In definitiva, quell’attacco localizzato, insorto appunto per una diatriba confessionale e presto ritirato dallo zar, si tramuta in un conflitto di dimensione euroasiatica, con grande dispiego di mezzi e con teatri operativi che dal Mar Nero, dove gli alleati mettono a ferro e fuoco Sebastopoli, si proiettano sul Baltico, per sprofondare fino alle coste russo-asiatiche dell’Oceano Pacifico. È il paradigma che, al di là delle ricuciture, dei compromessi russo-inglesi nell’Asia coloniale e delle alleanze continentali del primo Novecento, introduce i dissidi tra potenze centro-occidentali e mondo slavo nella vicenda contemporanea.
Appare oltremodo indicativo che le due guerre mondiali abbiano trovato i punti di accensione proprio nell’Europa orientale, balcanica e slava. Al di là del gestodell’irredentista serbo Gavrilo Princip, che nel 1914 uccide a Sarajevo l’erede al trono asburgico, la questione balcanica, su cui incombe il profilo egemonico della Russia zarista, garante del nazionalismo serbo e schierata nell’Intesa contro gli imperi centrali, costituisce un antefatto essenziale del conflitto. E la seconda guerra mondiale prende le mosse materialmente dai territori slavi che si interpongono tra la Germania e la Russia staliniana, con l’antefatto del 1938, quando la Germania di Hitler occupa la Cecoslovacchia per ricavarne i Sudeti, con il benestare di Chamberlain e Daladier alla Conferenza di Monaco, e, più direttamente, con l’invasione hitleriana della Polonia nel settembre 1939. Un fil rouge sembra annodare allora il passato e il presente, dopo decenni di cristallizzazione della storia, determinata, fino al 1989, dalle risoluzioni di Yalta, dai blocchi militari contrapposti, dalla deterrenza atomica.
La crisi attuale si snoda tuttavia in un mondo in crisi, quando gli assetti geopolitici tracciati in Crimea nel 1945 sono stati ampiamente sconvolti. La deterrenza atomica diventa un ostacolo superabile per le nuove tipologie e varietà degli armamenti, tattici e strategici: di qui la minaccia di fare uso, a determinate condizioni, di «armi mai viste». L’autorità dell’Onu continua a implodere mentre la Cina e l’India diventano attori di primissimo piano negli scenari globali, inaugurando il tempo dell’Asia. Si registra infine la conversione di un cospicuo numero di paesi slavi, emersi dalla crisi e dalle frantumazioni del 1989-92, agli stili di vita e ai progetti politico-militari dell’Occidente. Ed è quel che, ancora nell’est europeo, riapre la faglia. La Russia, dopo aver elaborato per anni l’umiliazione del proprio afflosciamento geopolitico, riprende l’arrogante tradizione zarista e slavista dell’«orto di casa», con la benedizione anacronistica della Chiesa ortodossa. L’Europa e l’organizzazione atlantica non cedono di un metro sulle proprie posizioni, armano l’Ucraina, attraverso cui di fatto combattono il nemico comune, mentre pianificano, lungo quella linea, dal Baltico al Mar Nero, lo schieramento di un esercito permanente in pieno assetto di guerra. Tra il blocco occidentale e, dall’altro versante, la Russia euroasiatica, dietro cui si avverte il respiro dell’Asia profonda, si apre allora una voragine che rischia di sconvolgere la storia, portandola in un limbo che non può evocare più la cortina di ferro.
In quei decenni l’Occidente e il blocco sovietico erano uniti, per paradosso, proprio da quel che li divideva verticalmente. A porli in contatto erano i campi in cui avveniva tra di loro la competizione economica, militare, scientifica, tecnologica, perfino sportiva: dal football, che proiettava sull’Occidente la leggenda del portiere Lev Jašin della Dinamo di Mosca, agli scacchi, che fomentavano lo scontro agonistico tra lo statunitense Bobby Fisher e il sovietico Boris Spasskij. Era il prodotto di una razionalità strategica che, fatta anche di simmetrie e confronti, ampliava le possibilità di dialogo e di coesistenza attiva. Animata da tale ragione, dialettica e di fatto condivisa, la competizione implicava allora, per forza di cose, forme di riconoscimento reciproco. È quel che avveniva, in modo ancora emblematico, in campo spaziale. Per tutte le opinioni pubbliche della Terra il sovietico Yuri Gagarin diventava nel 1961, oltre ogni schema o cortina, l’eroe assoluto, rappresentativo di un’unica vicenda umana, mentre su altri fronti insisteva la guerra fredda. Si apriva allora un confronto incalzante, che lasciava spazi a esperimenti interlocutori e, dal luglio 1975, con il primo aggancio in orbita di una navetta del programma Apollo e una capsula sovietica Soyuz, a forme di cooperazione tecnologica in campo satellitare.
La conoscenza storica non può essere predittiva ma può fornire coordinate utili per affrontare l’oggettività. Johan Huizinga nell’opera La crisi della civiltà, del 1935, attraverso un’analisi delle condizioni presenti, ormai compromesse, riusciva a intuire con buona approssimazione le vicissitudini che di lì a poco l’Europa avrebbe vissuto, con l’esplicitarsi pieno della tracotanza nazista. Anche oggi si è davanti a forti compromissioni di terreno che proiettano all’orizzonte tempi problematici, per l’Europa, l’Asia e il Mondo. L’attacco russo all’Ucraina ne è una componente decisiva, su cui convergono tensioni nazionalistiche e disegni egemonici, sostenuti da tradizioni ideologiche tipicamente russe. Appare significativo il cupo simbolismo della «Z» adottato dalla Russia di Putin per sostenere, al cospetto del mondo slavo, dell’Asia e dell’Occidente, la dimensione condivisa e plenaria dell’«operazione militare speciale», nei termini di una missione storica. Ma l’interventismo europeo-atlantico, sostenuto da nuove politiche di riarmo, incombe sul conflitto come un ostacolo alla pacificazione.
Con tale condotta impulsiva e reattiva, l’Occidente sovverte allora, scombinandole, le regole tradizionali della guerra. Al realismo tipico delle dottrine strategiche, già «codificate» nel mondo greco antico da Tucidide, si sta imponendo un iper-realismo bellicista che si traduce di fatto in un irrealismo, fatto da una sequenza di reazioni strategicamente illogiche. Mentre il conflitto atomico diventa un rischio oltremodo concreto, più di quanto potesse esserlo negli anni in cui Bertrand Russell e Albert Einstein prendevano posizione contro le politiche dei blocchi militari e la proliferazione delle atomiche, lo scenario che si apre tutti i giorni allo sguardo delle opinioni pubbliche è quello di una guerra progressiva, combattuta con mezzi aperti e dissimulati, materiali e culturali, fomentatrice di xenofobie selettive.
L’Occidente, che pure possiede i mezzi per imprimere una svolta interlocutoria alla crisi, si avvita in realtà sulle proprie inessenzialità sistemiche, con irreggimentazioni davvero eloquenti. Anche i maggiori social networkentrano in guerra e incitano i cittadini utenti a esprimere liberamente, senza alcun limite e freno morale, come nel film Purge di James DeMonaco, il loro odio verso il nuovo «paese canaglia», a riprova di un nichilismo sempre più ripiegato sui miti onirici della contemporaneità. Appaiono istruttive, in questo senso, le cacce al russo, sia che si tratti di un comune turista, di un reporter, di un direttore d’orchestra o della statua di un grande romanziere dell’Ottocento.
Carlo Ruta