“Fortunati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. E’ detto antico in cui si sintetizza una salutare diffidenza per la retorica. Chè è poi la retorica degli eroi quella che si sviluppa e pretende di cancellare le disgrazie, le meschinità, gli errori con le chiacchiere.
Gli eroi, il mito. Più propriamente è del mito che bisogna diffidare. Il mito che si crea su eroismi veri ed immaginari e che, al contempo, inventa gli eroi immaginari e spudoratamente li pone accanto a quelli veri.
C’è, evidente come non mai, una tendenza della giustizia non solo a far nascere dei miti, ma a farsi sostituire da un mito.
Creando persino termini falsificati e falsificanti perché affermino ed impongano il mito.
“Legalità” è espressione alla quale si è strappato il significato originario, che è quello della riconducibilità allo specifico dettato della legge della facoltà e del dovere di punire: “nullum crimen nulla poena sine praevia lege penali”. E in senso più lato il principio della riconducibilità alla legge di ogni espressione del potere e dell’autorità pubblici.
Ma il mito che si tende a sostituire al diritto, la lotta che “supera” la giustizia, hanno fatto di “legalità” addirittura una sorta di credo, o di “credo di parte”. Anzi di controparte in lotta “eroica” con la criminalità. Questa è la “Legalità”, materia di insegnamento nelle scuole, affidato per lo più alle mogli di magistrati e di poliziotti.
Con la pretesa di fare della giustizia qualcosa di “eroico”, di pugnace, non impantanato da regole, da limiti, non circoscritto alla applicazione delle leggi (cioè, proprio il contrario del “principio di legalità”).
Diceva Pietro Calamandrei di essersi dovuto scandalizzare, giovanissimo avvocato, di fronte alla rassegnazione insita in antiche proposizioni latine quali “habent sua sidera lites”, “le liti hanno le loro stelle, il loro destino” e d’essersi, però, poi convinto della dura realtà di quelle parole.
Ma oggi alla rassegnazione alle “stelle” (non alle 5 Stelle) si sostituisce la fede in una sorta di “sole dell’avvenire” che, però, non coincide con la “semplice” (???!!!) applicazione della legge. Quello che una volta era una diffidente e, magari rasegnata accettazione di una giustizia che nella sua ricerca di “adesione al caso concreto” poteva sconfinare nella discrezionalità e persino nell’arbitrio (si sentiva dire dagli scettici: la legge è ineguale per tutti, la giustizia lo è molto meno) è divenuta la diffidenza e lo sprezzo nella semplice applicazione della legge, con la creazione di un dogma, originato dal perpetuarsi delle “emergenze” di una “giustizia mirata”. Mirata all’”uso alterativo”, a finalità superiori, alla lotta ed alla conclusione vittoriosa contro piaghe vere, presunte, o, magari immaginarie, cui l’esercizio della giustizia dovrebbe essere condizionato.
Le caste sacerdotali tendono a creare, generalizzare, rendere totalizzanti i miti cui sono addette, farne delle religioni, con i nuovi precetti, elevare al cielo o demonizzare comportamenti ed uomini. E stabilire la superiorità delle “regole”, delle “verità” da loro inventate su ogni altra legge, norma, regola e sulla stessa ragione.
E’ in corso una tipica elaborazione di un mito di una giustizia di tal fatta.
A fondamento di essa, là dove la ragione implica non solo limiti di competenza e di attribuzioni ad altri organi dello Stato, ma anche gravi ed allarmanti questioni di ragionevolezza, ecco che viene fuori la “fede”. Quella degli eroi, dei martiri che ne fanno qualcosa di indiscutibile ed indicibile.
In questi ultimi anni la giustizia come miraggio, mito, fede si è andata ad imporre in contrapposizione al concetto di giustizia come essenza della ragione, prodotto della razionalità.
Dalla “giustizia di lotta” (prima al terrorismo, poi alla mafia) dall’emergenza al mito e ai miti e, quindi, ad una giustizia mitica, il passo è stato breve, rapido.
Con il mito, gli eroi. Ed anche il contrario: con gli eroi il mito dell’eroismo della giustizia. E con gli eroi ed i santi, se non proprio tali, almeno “onesti”, gli eroi fasulli, i cialtroni e ciurmati.
Dopo Falcone, Borsellino, Di Matteo. Come dopo San Francesco, Santa Filomena.
Scrivo tutto ciò perché ho l’impressione che, mentre il Partito dei Magistrati subisce un momento di crisi e vede svanire qualche miraggio di troppo facile successo, e, a fronte di sciagurate manifestazioni di Komeinismo di una frangia estremista del partito stesso, quale il processo c.d. della “Trattativa”, qualche pur modesta reazione di repulsione, cui non eravamo più abituati, si è cominciata a manifestare, mentre, poi, un meno episodico ricorso al mito, una più generale accettazione, da parte della magistratura, di una sua funzione travalicante la ragionevolezza dell’applicazione della legge si diffonde e si dà per accettata.
Giuocare all’antimafia comincia a piacere ai magistrati in regioni sempre più lontane da quelle dove mafia ed antimafia hanno un peso ed una storia. Penso alla mostra della “Legalità” a Palazzo di Giustizia a Roma. Ed a molti altri significativi episodi di “devozionalità”.
Vedremo. Vedrete. Dovremo cominciare, però, a renderci conto che ciò che vedrete dipenderà essenzialmente da noi.
Mauro Mellini