Se il Partito Democratico arranca e spera che a salvarlo alle prossime elezioni siano, se non i voti sempre meno probabili, almeno la legge elettorale con le sue complicate assurdità (“in virtù di nuove leggi chi perde voti acquista seggi” è la speranza non solo di quelli del P.D.) se anche un magistrato, come Grasso, uno di quelli che il potere lo vuole per sé e non per la sua corporazione, gli ha voltato teatralmente le spalle come un topo che scappa da una nave che affonda, è pur vero che i rapporti tra il partito di Renzi e quello delle Toghe sono ottimi. E vantaggiosi per gli uni e per gli altri.
“Ai magistrati non si può negare nulla” è il concetto base della politica del P.D. e del governo del sottocoda Gentiloni. Il processo di “giurisdizionalizzazione” dello Stato, l’erosione della stessa funzione e delle prerogative del Parlamento continua indisturbata. Leggi e leggine, come tante pezze colorate, distruggono l’edificio dei diritti fondamentali, aumentando quelle complicazioni che fanno crescere a dismisura il prepotere e l’abuso del potere giudiziario e, di contro, la criminalità, l’evasione dalla legalità, i contropoteri delle mafie, conseguenza dell’insostenibilità di una legalità sconquassata ed opprimente.
I magistrati possono compierle di tutti i colori. Affermano con tracotanza (si veda l’atteggiamento dell’A.N.M. sul caso De Luca) il loro diritto di disporre della vita e dei beni dei cittadini come delle cavie. E ne ottengono sempre maggiori occasioni e possibilità. Ed impunità. Orlando, questa mezza cartuccia simbolo della resa del potere politico, delle Istituzioni prone al volere delle Toghe, non potrebbe meglio testimoniare la totale vacuità di ogni ipotesi di resistenza.
Ma questa “non politica” del P.D. sulla giustizia, questa servile disponibilità a soddisfare tutte le pretese della maggioranza dei magistrati non è senza prezzo. Il P.D. ha riscosso e riscuote il suo “pizzo” sulla inefficienza della giustizia. Lo squadrismo giudiziario in danno del P.D. è limitato a casi di indocilità e del prevalere del gusto della originalità di qualche “cane sciolto” della minoranza inquieta del P.d.M.
La caduta di prestigio politico del P.D. della Sinistra è stata ed è anche in senso non traslato una bancarotta. E se parliamo di bancarotta ecco che vien fuori il “Pizzo” che i magistrati hanno pagato e pagano per la loro devianza istituzionale indisturbata.
La questione degli scandali bancari, la bancarotta della Banca Etruria non sono episodi di ordinaria corruzione.
E non è episodio di ordinaria tolleranza della corruzione degli amici degli amici la sostanziale copertura che il vero, grande scandalo riceve. Riceve da chi? Certo dalla “politica”, dai ridicoli provvedimenti che, fatti passare per “risarcimenti alle vittime”, assicurano quattro spiccioli a coloro che avranno da esibire una sentenza passata in giudicato che li dichiari ingiustamente danneggiati. Ma c’è ben altro.
Per alcuni giorni si è parlato degli elenchi dei beneficiari dell’allegra elargizione del credito da parte di quelle tali banche. Nomi noti di noti speculatori, ma anche del più grosso organismo di beneficienza (?) della Chiesa Cattolica.
Se ci sono dei poveracci rovinati dalla malavita bancaria, pensionati che hanno perso i risparmi di una vita, ci sono i beneficiari, i debitori insolventi e indisturbati, beneficiati da concessioni spericolate di credito e da mancate azioni per il recupero. La bancarotta è stata una manna anziché la resa dei conti per una vasta clientela privilegiata. Di questa è subito scomparsa ogni menzione sulla stampa.
Eppure lo scandalo vero è in quei nomi, in quelle elargizioni di credito a dir poco spericolate. Discutere della mancata vigilanza, della “culpa in vigilande” della CONSOB o della Banca d’Italia o del Tesoro è, nelle migliori delle ipotesi, uno sciocco e grave diversivo.
La bancarotta, reato ben specificato nella legge fallimentare, studiato, applicato, analizzato, sembra però abbia subìto improvvisamente, assieme ad una sorta di fenomeno riduttivo, una clamorosa deformazione giurisprudenziale.
Stranamente, Procure come quella di Arezzo ne hanno fatto, anziché un reato degli amministratori di un’impresa fallita in cui si sono verificati certi episodi di malagestione, reato di coloro che, in un’impresa poi fallita hanno commesso specificamente quei particolari atti di malagestione. Guarda caso con questa “virata di bordo” che è persino difficile definire “giurisprudenziale”, sembra sia assicurata l’impunità a certi particolari amministratori ben imparentati.
Cosa non da poco, perché l’incriminazione avrebbe comportato una botta mortale per il P.D.
Per non parlare, poi, di una evidente reticenza a considerare i beneficiari di elargizioni sfacciati complici necessari della “bancarotta per distrazione”.
Si dirà: con tante baggianate commesse con la “creazione” di ipotesi di reati inesistenti, qualche errore “restrittivo” delle ipotesi di punibilità di quelli realmente esistenti è, tutto sommato, auspicabile. Col cavolo! Tutto ciò ha il sapore di una nuova forma di “pizzo”. Una volta tanto avrebbero ragione quelli che sostengono che pagare il pizzo è reato. Perché si tratta di un pizzo pagato “adattando” l’uso del potere ai comodi di chi, da parte sua, chiude un occhio o anche tutti e due di fronte alla bancarotta della giustizia. Il “pizzo” con i nostri soldi, contro la nostra Repubblica.
Mauro Mellini