Aveva avuto tutto dal P.D. Ed era stato disponibile a tutto per averlo. Si era prestato, Presidente del Senato, a fare, spianando la strada alla sciagurata riforma Boschi-Renzi, il Commissario liquidatore di quel ramo del Parlamento. Seconda carica dello Stato, aveva espresso la “speranza” che saltasse fuori che Falcone fosse stato vittima, invece che di un crimine di mafia, di un “delitto di Stato”, molto più appetitoso per gli estremisti eversivi del Partito dei Magistrati e molto più “onorifico” secondo gli imbecilli, per la Vittima.
Aveva taciuto di fronte all’obbrobrio di una legge elettorale cambiata alla vigilia di ogni votazione, aveva trangugiato la violazione dei principi fondamentali della rappresentanza diretta della Nazione attraverso l’abolizione dalla scelta degli eletti col voto di preferenza.
Da un po’ di tempo, in vista della fine di una legislatura che lo avrebbe estromesso da quella poltrona su cui era stato inopinatamente imposto dal P.D. quale caparra al Partito dei Magistrati del più del potere da riconoscergli, era diventato nervoso e si agitava alla ricerca di qualcosa che lo mettesse in evidenza. Era chiaramente sbilanciato verso la fazione estremista del Partito dei Magistrati, quelli che vogliono tutto e subito, che non si accontentano della progressiva “giurisdizionalizzazione” del potere, della prevaricazione costante sull’Esecutivo ed il Legislativo, attraverso una mortificazione della politica e dei partiti.
Che propendesse per l’alleanza con la claque dei Cinquestelle per il forcaiolismo delle Procure si capiva, benché non si sbilanciasse e non rinunziasse a mantenersi in bonis con il P.D., il Governo e chi gli aveva dato e gli dava quel che nessuno avrebbe pensato potesse essergli dovuto. Del resto il posto del magistrato da elevare ad astro tra la luminaria cimiteriale dei Cinquestelle era già occupato da un Ingroia, e, soprattutto da un Di Matteo, il farsesco “cittadino di cento città”.
La “rottura” dei Cinquestelle con la legge elettorale che non garantisce ad essi lo sperato esito delle prossime elezioni ha fatto decidere Grasso: ora o non più. Decidere che? A lasciare il gruppo P.D., di cui, in qualità di Presidente, non avrebbe potuto e dovuto far parte. Un’autentica buffonata. Mica si è dimesso da Presidente del Senato! Quelli come Grasso non si dimettono manco da presidenti del condominio.
Conquistarsi la leadership populista e forcaiola per conservarsi una poltrona, possibilmente ancora più in alto (anche se c’è da aspettare: Mattarella ha ancora anni da passare al Quirinale, ma c’è sempre la speranza che il P.d.M., dopo aver disarcionato ben altri uomini politici, accorci i tempi dell’attesa).
Ecco, dunque il candidato ideale alla Presidenza dell’Eversione giudiziaria-forcaiola. Presidente di qualcosa, purchessia.
Ecco l’esponente di una magistratura scalpitante, che vuole tutto e subito.
Ecco l’esponente di un torbido populismo pre-totalitario.
Da cui guardarsi, da denunciare e da battere, anche se non è una cosa seria. Grasso ha in prospettiva, un ruolo segnato anche da una venatura di ridicolo. Meglio così. Avremo paura degli spaventapasseri?
Mauro Mellini