Nella campagna per il referendum sulla riforma costituzionale è stata messa “in palio”, a sproposito, la legge elettorale. A sproposito ne è stato discusso lo “scambio” con la sciagurata riforma. Una delle più assurde baggianate tirate fuori nella polemica tra il SI ed il NO è stata indubbiamente quella di Bersani, che ha chiesto, per votare SI con entusiasmo (ché, altrimenti lo avrebbe fatto eugualmente, ma col broncio e senza farne propaganda) che Renzi “facesse vedere” una riforma dell’Italicum, l’altrettanta sciagurata legge elettorale imposta da quest’ultimo.
Baggianata era questo “scambio” e, più ancora, le condizioni ridicole per l’entusiasmo per il SI.
Altra cosa era il collegamento, conseguenza di un identico disegno antiparlamentare ed autoritario della politica istituzionale di Renzi. Un dato emerso chiaramente, con la campagna referendaria, da non dimenticare oggi per miserabili interessi di botteguccia di partito.
Poco è stato notato, tra le tante, allarmanti “novità” della riforma costituzionale fortunatamente “rottamata” dal voto popolare, la pratica scomparsa dalla Costituzione “riformata” del disposto dell’art. 67: “ciascun membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Si tratta di una norma fondamentale, che qualifica i Parlamenti moderni, distinguendoli dalle Diete e dalle riunioni dei titolari dei feudi dello stesso Sovrano. E’ norma che risale al primo nostro sistema parlamentare, quella sancita dallo Statuto Albertino, art. 41: “I Deputati rappresentino la Nazione in generale e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori”.
Una cosa è chiara e tale è rimasta in secoli di storia. Il Popolo elegge i Parlamentari, non i governi e, solo per conseguenza, i Parlamenti (l’indicazione del nome del “presidente” designato nel simbolo delle varie liste è una consuetudine “contra legem”, palesemente in contrasto con il sistema costituzionale e intrinsecamente un po’ sciocca oltre che falsa).
Qualsiasi forma di elezione, che privilegi la scelta del partito (o, magari, della coalizione) rispetto alla scelta delle persone da mandare a far parte delle Camere, costituisce un grave passo contro il concetto stesso di Parlamento.
Del resto le argomentazioni fatte valere contro il voto di preferenza sono tutte stupide e si risolvono nella negazione dei valori dei sistemi democratici e parlamentari.
Quella più stupida ed, al contempo, più frequentemente proclamata o, magari “mormorata”, è quella secondo cui l’abolizione dei voti di preferenza è necessaria per troncare il fenomeno del clientelismo e del “voto di scambio” con organizzazioni criminali. Proposizioni che portano alla negazione, per la sua “pericolosità”, di ogni elezione. Poiché di voto di scambio si continua a parlare dopo l’abolizione delle “preferenze” e poiché clientelismi e fenomeni di varia corruzione elettorale si verificano anche (e forse ancor più) nelle elezioni “in blocco” e “solo per liste e partiti”, in base a quel principio si dovrebbe arrivare alla abolizione di ogni elezione.
Ogni sistema elettorale senza la possibilità di scelta tra i candidati della lista votata è un attentato alla democrazia ed alla concezione stessa del Parlamento.
E’ vero che il voto di preferenza ed anche le “preferenze plurime” non avevano finito per darci una selezione qualitativa soddisfacente degli eletti e che i partiti politici, con la stessa compilazione delle liste, l’ordine in cui vi “piazzavano” i singoli candidati e, soprattutto, con la loro organizzazione attiva durante la campagna elettorale e con lo spirito di militanza (oggettivamente non diversa dai vincoli clientelari) finivano con poter far eleggere i più “docili” tra i candidati ed i loro adepti. Ma altra cosa è il difetto dell’uso di una norma, altra quella della norma in sé.
Certo è che, abolite le preferenze, il livello qualitativo dei Deputati e dei Senatori è sceso di molto. E la scelta delle candidature è divenuta grottesca, per la rilevanza data solo a caratteristiche di notorietà o, magari, di avvenenza e di sex appeal che nulla hanno a che fare con la capacità di ben rappresentare la Nazione e di ben esercitare le funzioni inerenti alla carica.
E, poi la libertà da “vincoli di mandato”, con il divieto del “mandato imperativo”.
Non è certo uno spettacolo edificante, quello fornito da “emigrazione” di parlamentari da un gruppo all’altro, in cerca di una collocazione più apprezzata e più sicura. Ma il “vincolo di mandato” che Berlusconi, il cui partito è stato vittima di tali massicci abbandoni, vorrebbe fosse invece stabilito per norma costituzionale, è un non senso.
Tanto varrebbe, se lo si dovesse, invece, rendere obbligatorio, sostituire il Parlamento con un “azionariato” fondato su titoli azionari attributi ai capi partito. Credo che Berlusconi non si renda neppure conto a quali specifiche assurdità darebbe luogo una tale sciagurata norma. Occorrerebbe prevedere, quanto meno, l’abbandono “per giusta causa”, quando, magari, a voltar gabbana sia stato il partito e non il parlamentare che lo abbandona. E chi dovrebbe decidere in merito? Il giudice del lavoro?
Non meno assurdo, illegittimo ed anche un pochetto trasbordante nel reato, è il sistema adottato dai Cinquestelle, della “penale” stabilita con un grottesco contratto, per i parlamentari e gli eletti in genere che lasciano il Movimento.
Detto tutto questo, se non fossi ben conscio dei miei limiti e delle mie inadeguatezze, sarei portato a suggerire e mettermi tra i promotori di un “movimento per il diritto al voto di preferenza”. Possibile che non vi siano altri che vogliano farlo?
Mauro Mellini