Neanche lontanamente simpatici.
Bellocci, ma di quella bellezza un po’ scialba, sufficiente per creare il personaggio ma non abbastanza per fare i divi, se non del male.
Spocchiosi, tranne quando è necessario piangere per le telecamere o per i giudici.
Lui con quel capello lungo da maranga pugliese, faccia perennemente da sganassoni, e fidanzata al seguito, lei capello corto e cartello in italiano come un prigioniero politico.
Ce l’hanno messa tutta per farsi condannare, e per certi aspetti sarebbe stato meglio che non avessimo mai conosciuto la loro storia, per lo più poco edificante.
Ma. C’è sempre un ma.
Per accusare qualcuno di omicidio e per condannarlo ci vogliono le prove.
Prove vere, schiaccianti, testimonianze affidabili, riscontri oggettivi e multipli.
Come abbiamo imparato dai telefilm americani, l’imputato deve essere colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Significa se non fosse chiaro che tutti, giudici, PM, stampa, opinione pubblica, devono chiedersi: ma sono veramente stati loro? e perché, e come hanno fatto? e dove sono le prove?
La storia della Giustizia italiana è costellata invece di condanne senza prove, qualche volta ideologiche, altre semplicemente per convincimento dei PM e dei Giudici (che non sempre sono “terzi” rispetto alla vicenda), e altre ancora, crediamo, perché le pezze d’appoggio c’erano ma per vari motivi non avrebbero retto in tribunale.
Ma di questi casi, di condanne senza prove concrete, ne abbiamo dovute contare un po’ troppe.
Dal caso eclatante di Enzo Tortora, arrestato e condannato per la calunnia di un camorrista.
O di Adriano Sofri, che ha scontato anni di carcere per l’omicidio del Commissario Calabresi, in assenza di qualsiasi elemento che lo colleghi al delitto se non la tardiva confessione del presunto esecutore materiale, e grazie al ribaltamento della sentenza di assoluzione per via di un cavillo giuridico usato ad arte dai giudici togati.
Senza poi considerare i casi di cronaca più famosi come Scattone e Ferraro e il delitto della Sapienza, la Franzoni e Cogne, fino a Stasi e al delitto di Garlasco. Tutti casi in cui la condanna non si basa quasi mai su prove concrete, ma su indizi fragili, convincimenti, opinioni, “quadri complessivi”.
Non sono un avvocato, e ringrazio dio di non esserlo, non mi interessa disquisire sui massimi sistemi giurisprudenziali.
Dico che anche se Sollecito e Knox sono così antipatici che spero di non vederli più in televisione, sono contento che siano stati assolti, perché finalmente qualcuno si è chiesto se esistesse un ragionevole dubbio se fossero stati veramente loro, e si è risposto che sì: di dubbi ragionevoli ne esistevano molti, forse troppi.