Francesco Pepi venne ucciso il 14 febbraio 1989, giorno di San Valentino, con sette colpi sparati da un motorino. La figlia venne avvertita a Rimini dove stava festeggiando con clienti americani un contratto per la vendita di carciofi in scatola. Giovane pastore, Pepi aveva comprato terre e poi, per primo in paese, macchinari. Aveva inventato un ingegnoso sistema per la produzione di peperoni arrostiti, pomodori seccati, melanzane, carciofi. Aveva fatto «la fabbrica», la Paic Sud, era socio di certi Pisoni di Caravaggio e Fumagalli del bergamasco, aveva contatti con i mercati generali di Roma, vendeva a grossi marchi come Ortobuono, la Arimpex di Pescara gli aveva comissionato un Tir di carciofi arrostiti alla settimana. Chi lo ammazzò non si è mai saputo, ma certo per il paese fu il segnale che «troppo era meglio non fare». Così ci fu una grande folla al funerale, suonò la banda comunale per la morte di un benefattore, ma poi la fabbrica chiuse e il Banco di Sicilia la ipotecò. Da allora è chiusa, con i macchinari accatastati. Nessuno ha mai più pensato di lavorare i prodotti della terra: i carciofi oggi si prendono, si caricano sui camion della ditta Di Trapani e si vanno a vendere in Puglia. Anzi, a svendere.
Dopo otto anni, Franca Pepi ha ricevuto il certificato di parente di vittima della mafia: cento milioni e un posto di lavoro all’ufficio di collocamento. È stata una lunga e faticosa istruttoria, in cui sono saltate fuori delle carte, che dicevano che il vecchio Pepi era chiamato il «colonnello» perché passava informazioni ai carabinieri, che negli ultimi giorni era agitatissimo perché gli avevano chiesto di trasportare sui camion, insieme ai carciofi, anche qualcos’altro. (Ai tempi si parlava di armi e di droga, con voci di una raffineria in zona). Franca Pepi vorrebbe ancora oggi riaprire la fabbrica: dice che lo Stato glielo deve, come ha aiutato la fabbrica di Libero Grassi.