Avrebbe preferito il bianco e nero. Una foto e non un dipinto. Una foto può stare in tasca, nel cappotto d’inverno o in un grembiule leggero, d’estate. L’estate. Sembrava naturale che il tempo ci fosse e che noi si stesse nel tempo, e che noi non saremmo finiti e neppure il tempo. Ora sapeva che non era proprio così. Che non sei tu ad attraversare una stagione, ma è la stagione a chiudersi dentro di te e a percorrerti per il tempo necessario. Per questo avrebbe preferito una foto, e in bianco e nero. Tanti particolari non si notano, è un impasto gentile, netto che si perde sulla carta, sfuma nel bianco del volto, nelle ombre che il fotografo non ha saputo evitare, o non ha voluto. Ma le sarebbe piaciuta quell’assenza di colore, quella neutralità della pelle, quella genericità dei segni. Il fotografo non riproduce sempre quel che vede, forse deve mediare, discutere, venire a patti con la lente del suo alambicco. Infine di quel che ha visto o che avrebbe voluto testimoniare, non resta che un rettangolo di carta che nella migliore delle ipotesi si gualcirà e nella peggiore andrà a incollarsi malamente in uno di quegli album da pochi centesimi che si acquistano ai mercati. Insomma, una foto può diventare un fatto privato, un interlocutore di poche pretese, una certezza. Nessuno sa che mentre cammini, la tieni in tasca, quasi appiccicata al palmo della mano. Hai quasi l’illusione di tenerti l’anima. Ora aveva un dipinto. In casa sua non ce ne erano mai stati, fatta eccezione per quella strada gialla, in mezzo a due file di alberi, dove, in una prospettiva lontana, avanzava un uomo, da solo, e che doveva essere un dono di nozze di qualche zia malinconica.
Glielo avevano recapitato per posta. Una tela non del tutto quadra, che la raffigurava. Senza nessuna pietà, le sembrò. All’inizio neppure si riconobbe. Poi, lentamente, le apparivano dei particolari, la forma del naso, per esempio, era inconfondibile. In realtà si individuò con più precisione grazie al colore. La pelle lievemente chiazzata di rosso, il giallo dei capelli e gli occhi, che erano della tonalità della palude, e della terra sotto la pioggia.
-Perché ora?- mormorò, mentre girava per casa con quella tela cercando un punto, un appoggio dove scaricarla. Infine, stanca, come se avesse lottato per liberarsi da una piovra, lasciò che le mani allentassero la presa e il quadro fu depositato su una mensola, un po’ in alto, dove le era veramente scomodo buttarci lo sguardo.
-Perché ora- ripetè allontanandosi dalla stanza e rifugiandosi in cucina per farsi un caffè. Guardò l’orologio: come mai i postini viaggiavano avanti il sorgere del sole? Perché i pittori dipingevano donne dalla pelle segnata, e dallo sguardo stanco? Perché da giovane, quando il contorno del suo viso non lasciava affatto indovinare che sotto vi fossero delle ossa, non le era mai accaduto che un pittore la sorprendesse? Di quell’inizio non c’erano prove così evidenti, si qualche stupida istantanea al tempo della scuola, ma lei è così lontana, che dagli altri neppure si distingue. Ora, ora è in bella evidenza, sulla mensola del soggiorno. Riempie la tela, non c’è spazio per altro. Si è presa tutto. Dietro di lei c’è del colore bruno. Dietro di lei non c’è niente.
Le ossa, le vene del collo, non ha tralasciato nulla. Era tornata indietro per dare un’occhiata, ma poi aveva da fare in cucina. La stufa doveva essere caricata, l’ebollitore fischiava, e fuori era ancora tutto nero, neppure il solito ciangottio stridulo degli uccelli sui rami, nel freddo. Che cosa le era preso quella volta di uscire e andare in un bar. Certo non era una novità nella sua zona, la gente lavorava tutto il giorno, e poi alla sera facevano fare gli straordinari al loro fegato in qualche locale. Capitava spesso che qualcuno cadesse giù dallo sgabello, ma nessuno rideva. Per questo lei non ci andava mai. Preferiva dare una sistemata alla casa, e prepararsi una cena decente. Bere non le era mai piaciuto, anche se reggeva benissimo l’alcool, come suo padre, del resto. Ecco, il quadro le diceva chiaramente che lei somigliava tutta a suo padre, che aveva la sua impronta, in quel naso marcato di giovane pugile, nelle mascelle ben disegnate, nel mento retratto, discreto, nelle labbra tese, la pelle rossiccia, gli occhi acquosi. Ne era rimasta di sere a guardarlo, mentre smaltiva seduto al tavolo della cucina, e sua madre gli preparava un caffè forte.
E’ ancora notte. Ne doveva fare di consegne quel postino se era sbarcato sulla sua porta che ancora ingigantiva la luna, almeno le era parso d’averla vista, con la coda dell’occhio semiaddormentato. Il freddo e la luna.
Si versò il caffè bollente e indugiò con la tazza incollata alle labbra per sentire il vapore caldo risalirle sul viso, fino alla fronte. Iniziò a bere a piccoli sorsi e intanto veniva calamitata verso il soggiorno. Non accese la luce, stava appena rischiarando, e l’ombra viola della stanza era illuminata dal suo quadro, dalla luce dei suoi capelli, dall’evidenza del quarto di mano che raccoglieva parte del volto. Cosa stavo guardando. Ma era una domanda retorica, lo ricordava benissimo. Non c’era niente da guardare e tanto meno da sentire, a parte il frastuono del locale, che ad un certo punto era divenuto brusio e poi più niente. Non c’era il tavolo a cui stava seduta, a parte il ricordo di qualche intaglio fatto con il temperino e delle scritte oscene. Non c’erano le luci al neon appena fuori che tingevano di blu l’area del parcheggio, che da piccola le sembrava un posto favoloso e da grande le comunicava solo una stretta allo stomaco. Neppure alcuni ricordi, a cui stava appesa la sua vita, c’erano più. C’era un fatto, così assoluto, da negare l’esistenza di altri fatti, o a concedergli solo una parte marginale. Ombre, tutto il resto, ombre. Era quel fatto che lei stava contemplando.
Il Quadro diceva tutto. La foto non l’avrebbe permesso, lei l’avrebbe fatta sviluppare piccola, il più piccolo formato esistente, magari come quelle di una volta, con i margini impreziositi dal taglio a ricciolo, e poi, in un giorno in cui la vita le sarebbe apparsa veramente impossibile, l’avrebbe gettata nella stufa, per liberarsene. Prende mentalmente la misura del Quadro e la confronta con l’apertura della stufa. Non ci va.
I suoi occhi erano asciutti, allora. I capelli lavati e tagliati alla buona. Il dorso delle mani ruvido. La maglietta nera, scolorita, il collo, più giù, più in fondo, il cuore. Tutto il peso del cuore sta sulle palpebre abbassate, pesanti, non poteva volgere gli occhi, le dolevano, occhi aridi come certe terre senza acqua, come certa pelle che ha ceduto di colpo alle gelate prese per decenni, in mattine come queste, per avviarsi ad un lavoro dove di nuovo si raccoglievano spifferi, correnti d’aria, mani immerse in secchi d’acqua fredda, via via meno limpida. Non c’era un centimetro di quella tela che non raccontasse di quanto le veniva naturale rimanere piantata con la testa tra le mani, coperta dalla scorza dura della sua pelle, in apparente quiete. Due giorni appena dall’incidente. O due anni. Due ore? Non credeva due ore, erano due settimane, due settimane dopo l’incidente, dopo le notizie accolte e trattenute in uno stato di asfissia crescente. Sotto l’occhio destro c’è appena una rilassatezza della pelle, una piega, dove c’era un gonfiore persistente di lacrime. Ora le orbite sono vuote, e la pelle si raggrinza. Sopracciglia biondastre, rade, una lieve amarezza. Quell’uomo era lì, e ha visto tutto. Lei guardava sua figlia.
Si avvicinò di più alla tela per vedervi riflessa sua figlia, che forse non la ricordava come allora, aveva quasi smesso di sentire la sua voce, da poco, davvero, ma già le sembrava di ricordarla meno. Vorrebbe vederla in quel segno verso la fronte, quello che parte dalla sommità del naso, quel lieve taglio di malinconia. Ai giorni di neve. A quando lei e la piccola erano insieme nei giardini della scuola pubblica e si rincorrevano, scivolavano, ridevano. Ai giorni di neve.
Quanto ti ho amato.
Tornò in cucina a depositare la tazza nell’acquaio. Vi si appoggiò e guardò fuori della finestra senza tendine. Il giorno. Le dispiacque.
Due settimane prima le avevano telefonato, per l’incidente e per tutto il resto. Sua figlia. Due settimane e lei era in un pub a specchiarsi in una birra dello stesso colore dei suoi occhi o dei suoi capelli. Una o due, o anche di più. Poi era uscita nel parcheggio e si era offerta a qualcuno, per soldi. Il parcheggio era blu, la luce del neon le sembrava bianca, e il fruscio dei soldi che cadevano a terra, lieve. Il giorno dopo era tornata al suo lavoro di secchi e stracci e di mattinate fredde. Dopo un mese era crollata. Era tornata al pub, ma non era riuscita ad entrare. La sera era gelida ma in faccia si sentiva di fuoco per la vergogna. Inutile dirsi che quella volta era accaduto perchè lei era ubriaca: era stato per i soldi. Il funerale l’aveva messa a terra.
Non si guardava più da tanto tempo e con tanta attenzione come ora osservava il Quadro.
Il pittore doveva essere lì, quella sera, e in fondo era stato sincero o talmente ubriaco da vederci chiaro.
Lasciò il soggiorno per ritornare in cucina. Sul tavolo c’era la carta che avvolgeva la tela, ed ora era strappata. La lisciò in tutti e due i versi e alla fine trovò quello che cercava. In fondo, scarabocchiato con un pennarello:
L’amore non conosce vergogna, Caroline.
Tenne le mani aperte piantate su quel pezzo di carta ruvido. Con uno sforzo si allontanò dalla cucina, ripercorse la strada fino all’ingresso sul retro, dove aveva bussato il postino. Era troppo intontita per farsi delle domande. Il rintocco solenne, mentre ancora è notte, spinge ogni anima a rispondere. Non le tremano le mani quando apre la porta, di nuovo, ed è giorno chiaro. In lontananza l’orizzonte ha ancora un riverbero rosa.
Tra le migliori figure, quelle di donne nude al centro, tra cui una rivolta indietro a conversare, e quella della vecchia, in alto a sinistra, che si copre il capo con un velo che lascia invece scoperti i seni avvizziti e cadenti.