Buongiorno, è da qui che passa il 47? Appena partito? Pazienza, tanto a me a parte la vecchiaia non mi insegue nessuno, che bei giovani che ci sono, tu di dove sei? Nigeriana? Io no, torinese purosangue, ma non senti freddo in questa città?
Fa caldo in Nigeria? Ah piove spesso? Mannaggia pensavo di no, però farà caldo no?
E lei giovanotto penso sia torinese, no? Mi scusi se parlo tanto però in famiglia non mi ascolta mai nessuno e le nipotine dopo cinque minuti ne hanno abbastanza di me, sa a nessuno interessano le storie di una vecchia, io a volte le mie storie le scrivo, ne avevo scritto una dove raccontavo che per fronteggiare questa grave crisi economica dovrebbero rivolgersi agli anziani. Chi più di noi sa come fronteggiare i momenti atroci? Abbiamo fatto la guerra e abbiamo sopportato la crisi economica successiva, figuriamoci se non siamo in grado di sopportare anche solo un momento in cui ci sono meno soldi.
Io ho avuto una bella famiglia sa? Tutti uniti, credevamo che il mondo si fermasse a Torino, tra le vie che costeggiavano tranquille la nostra vita. Un fiume senza piena, libri con finali previsti.
Invece questa armonia era destinata a cambiare per colpa di mia sorella. A casa credevamo che le mura fossero quel confine così comodo. Un alibi contro ciò che accade fuori. Il problema è che non avevamo capito che stare rinchiusi dentro una famiglia accettandone regole ferree significa anche perdersi il mondo di fuori. La sua diversità.
E per diversità non intendo solo chiamarsi con un altro cognome. Ma proprio essere come quella bella signora di colore lì, quella che viene da quel paese, com’era? Ah si Nigeria!
La diversità a Torino era quella invasione di gente come lei, l’ho capito da dove viene sa? Ragazzo mio lei ha un accento inconfondibile. Lei è siciliano.
Vennero per la Fiat, affamati, vogliosi di vivere. A mio padre sembravano straccioni destinati ad annegare che rubavano l’aria ai torinesi. Li guardava come dei poveracci. Come i tedeschi guardavano gli italiani quando emigravano in Germania. L’unica differenza è che li chiamava terroni e non “suonamandolinomangiaspaghetti”. Ecco lei per mio padre sarebbe stato un terrone. Ma io con la vecchiaia ho imparato che il luogo dove si nasce non è mai collocato con certezza. Lei crede di nascere che so, a Palermo, lei dice di essere del sud, ma rispetto a questa signora qui lei è un polentone. Lei da Africana vede i siciliani come i suoi nordici. Noi siamo qualcosa a sud o a nord non per noi stessi, ma per chi ci guarda.
Mio padre li guardava dalla finestra.
Li vedeva come delle gazzelle che all’improvviso appaiono in paesaggi innaturali, incuriosito, ma anche irritato. Come se presagisse che il suo borgo cittadino fatto di certezze e di normalità stesse vacillando.
Si sa che quasi tutti i cambiamenti avvengono col sangue. Anche questo.
Ma cosa ha capito? Mica c’è scappato il morto!
Ma sempre sangue è quello che ribolliva nelle vene di un operaio della fiat agrigentino, quando vedeva uscire mia sorella dal portone.
Da qualsiasi prospettiva si mettesse lei incrociava il suo campo visivo, le sue pupille bussavano al cuore. Che rispondeva pronto e attento.
Lui si innamorò di lei, lei capì che lo sguardo di quell’uomo apriva la vita insieme.
O almeno così sembrava, perchè mia sorella dovette scendere dalla nuvoletta rosa imbottita dei battiti dell’operaio e andare a parlare con mio padre.
– ho conosciuto uno mentre andavo a scuola – disse lei quasi lanciando in acqua un concetto e sperando che affondasse senza essere notato.
– ah si? Un tuo compagno? –
– ho detto mentre andavo a scuola, non mentre ero a scuola –
L’allarme prese la forma di fiamme nel volto di mio padre.
– che mestiere fa? –
– l’operaio alla Fiat-
Guardai mio padre, per lui era quasi fuori, ma papà non era rigidissimo, comunque era un mestiere e sicuro.
– voglio conoscerlo –
Mia sorella stava per sospirare di sollievo, non so se avete sentore di che suono fa un respiro tranciato. La frase di mio padre ricacciò in gola la serenità.
– da dove viene?-
Mia sorella ebbe la classica sordità da autoconservazione
– ho chiesto da dove viene – ribadì mio padre
– Agrigento –
Mio padre stette un minuto buono a pregare di aver sentito “Torino” a essere proprio magnanimi Alessandria, tutt’al più Novara.
Poi esplose.
Vietò tutto, anche solo di ripetere il nome di quella città, vedeva mia sorella già divorata da cannibali Siculi una volta andata a conoscere i parenti.
Ma mia sorella stava sperimentando una droga pericolosa. L’innamoramento.
Di quelli che non ha nazionalità, che non chiede documenti.
A lui quell’agrigentino piaceva, punto e basta. Cominciò a vederlo di nascosto, a parlarci, perchè a quei tempi caro giovane, quello che si pensava fosse trasgressivo era anche solo parlare fuori da una fabbrica con un altro ragazzo. Era già essere compromessi.
Mio padre sapeva e taceva, certo che quel fuoco se lui lo avesse tolto dalla coperta dell’occultamento sarebbe stato ancora più alimentato.
Proibiva permettendo, certo che prima o poi tutto sarebbe svanito in una infatuazione giovanile.
Non fu così.
Passarono mesi, in cui mia sorella tornava sempre con qualche minuto di ritardo da scuola, sull’orario calcolato.
Poi un anno, poi un anno e mezzo. Mio padre non la vedeva mai infelice. Quindi non percepiva la fine di questa strana storia.
Era un problema grosso, un torinese che mischiava i suoi geni con uno del sud, era come adesso mettersi in casa uno di un’altra religione perchè tua figlia lo ama. In più tutte quelle cose che si sentivano dire sulla Sicilia, che ti sparavano addosso, che c’era la mafia. Che tutti erano comunque mafiosi o ladri.
La misura fu colma un giorno poco prima di pranzo. Stavolta mia sorella non tornava sola, ma abbracciata a quell’uomo. Io li vidi dalla finestra, mi creda ragazzo mio, non ho mai visto nulla di più bello, nè come forma d’arte nè di vita. Una volta nel volto di un uomo che soffriva ho avuto l’impressione di vedere Cristo in Croce. Ebbene nello sguardo di mia sorella e di quel ragazzo ho visto l’amore nella forma più pura, quella incorruttibile.
Mio padre scese da casa, convinto di trovarli in atteggiamenti equivoci.
Invece il ragazzo di mia sorella stava salendo, per parlare con lui.
Si trovarono faccia a faccia davanti alla porta. Mio padre lo guardò, lui sostenne lo sguardo.
Non aveva nulla da perdere, perchè quando si ha tutto da perdere scappando, o resti e vinci, o muori. Ma se scappi sei morto da vivo per sempre. Lui si giocava la sua vita e il sogno di condividerla con l’altro pezzo delle sue giornate col sole.
Mio padre stava per attaccare la filippica di chi non voleva ascoltare. Lo bloccò.
– prima lasci parlare me, in fondo ascoltarmi non le costa nulla –
Mio padre risentito, ma sorpreso, acconsentì.
– non qui, in privato, vedo che ha uno studio, andiamo lì, io e lei-
Ragazzo mio, l’amore vero parla sottovoce, l’amore vero non ha bisogno di urlare, si autolegittima per quello che vale in un sussurro.
Non riuscimmo a sentire una parola di quello che si dissero. Da fuori non si percepiva un soffio.
Uscì per primo mio padre, poi il ragazzo.
Mia sorella li guardò, mi creda io ho ancora negli occhi l’immagine di una savana, non di un salone della Torino-bene.
Un leone più vecchio, lasciava il comando a un cucciolo che lo aveva battuto senza sbranarlo.
Non sapemmo mai cosa si dissero, so solo che mio padre disse una frase.
– il buon cavallo si vedrà dalla lunga corsa, poi sarà pure di Agrigento, ma non credo che lì vogliano bene in maniera diversa-
Non sorrise, non aggiunse altro. Ma lo accolse. Le domeniche lo avevamo a pranzo, era un vulcano, raccontava della sua terra e ne portava segni che riscaldavano le fredde giornate di dicembre.
Mio padre non disse mai una parola di più, se non il necessario per essere cortese col suo futuro genero.
Perchè diventò davvero suo genero, si sposarono, andarono giù in Sicilia in viaggio di nozze, mio padre conobbe i consuoceri che vennero a trovarli, ma non si scompose mai, neppure di fronte all’entusiasmo di mia sorella per una terra che odorava di paradiso licenzioso e stregato, bellissimo da mozzare il fiato, vi tornò spesso giù sa? Era legatissima alla terra del marito.
Ebbero una vita serena, bella, piena di figli, io non ne ho avuti, mi sono consolata con i nipoti. Mio padre non fece mai più nulla di una cortesia affettata, nemmeno quando questo matrimonio entrò nell’abitudine e di fatto nell’albero genalogico della nostra famiglia.
Io non lo so come esprimete l’affetto adesso, ma forse ai miei tempi era difficile emozionarsi e consegnare sè stessi nelle mani di chi ci ama.
Capimmo solo poco prima che mio padre morisse quanto quel genero avesse contato e contasse per lui.
Un giorno, quando già un brutto male lo stava consumando, gli mise una mano sulla spalla e disse di sfuggita:
– ma tu guarda, ti manca tanto così per essere Africano e sei diventato una parte importante della mia famiglia, chi l’avrebbe mai detto-
E andò in camera da letto a riposare.
Capimmo che era un passaggio di consegne, ironico, teso a far capire istrionicamente chi comandava, ma fece capire quanto gli voleva bene.
Ora tutto questo non c’è più sa? Mia sorella, mio cognato, non ci sono più, ho nipoti grandi che non mi vengono mai a trovare e le confesso che la domenica è dura per me la solitudine. Allora scrivo, ma non voglio far leggere nulla di quello che penso, ho tanti quaderni pieni di storie. Così ogni tanto salgo su un autobus, scelgo a caso chi mi piace e gli parlo, racconto. Perchè ho parlato con lei? Perchè caro giovane, lei può prendere in giro tutti, sorride, con la bocca, ma gli occhi mancano di qualcosa. Lei è malinconico, ha perso una parte di sè, qualcuno le ha potato un ramo che non era secco. E lei ne avrebbe fatto a meno. Lei è con tanta gente ma è solo di qualcosa, non so se mi spiego, perchè sa, non c’è nulla di peggio che chiudere la porta quando tutti sono andati via. le risate, l’eco delle cose belle, si agita come un fantasma in casa. e non si sa se abbiamo fatto abbastanza per trattenere quei suoni, per farli nostri, per fare le canzoni che fanno bene alla nostra anima. E quando tra i suoni persi c’è quello di un amore importante, ci si deve incoraggiare da soli, mi creda , non c’è nulla di peggio che ascoltare la propria voce intenta a farsi coraggio da sola. Curi le sue ferite lei che è giovane e lasci andare ciò che non può trattenere, ma non resti mai seduto, zoppichi, stenti, si appoggi, ma provi a camminare. Adesso scendo, è la mia fermata.., scusi se l’ho annoiata.
“Credevamo che il mondo si fermasse a Torino, tra le vie che costeggiavano tranquille la nostra vita. Un fiume senza piena, libri con finali previsti.”
“Ma io con la vecchiaia ho imparato che il luogo dove si nasce non è mai collocato con certezza. Noi siamo qualcosa a sud o a nord non per noi stessi, ma per chi ci guarda.”
“Non aveva nulla da perdere, perchè quando si ha tutto da perdere scappando, o resti e vinci, o muori. Ma se scappi sei morto da vivo per sempre.”
“Perchè ho parlato con lei? Perchè caro giovane, lei può prendere in giro tutti, sorride, con la bocca, ma gli occhi mancano di qualcosa. Lei è malinconico, ha perso una parte di sè, qualcuno le ha potato un ramo che non era secco. E lei ne avrebbe fatto a meno.”
Il finale è il messaggio di saggezza e speranza:
“non c’è nulla di peggio che chiudere la porta quando tutti sono andati via. le risate, l’eco delle cose belle, si agita come un fantasma in casa. e non si sa se abbiamo fatto abbastanza per trattenere quei suoni, per farli nostri, per fare le canzoni che fanno bene alla nostra anima. E quando tra i suoni persi c’è quello di un amore importante, ci si deve incoraggiare da soli, mi creda , non c’è nulla di peggio che ascoltare la propria voce intenta a farsi coraggio da sola. Curi le sue ferite lei che è giovane e lasci andare ciò che non può trattenere, ma non resti mai seduto, zoppichi, stenti, si appoggi, ma provi a camminare. Adesso scendo, è la mia fermata.., scusi se l’ho annoiata.”
Ancora una volta parli di vita. Una signora anziana che prende gli autobus per parlare con la gente perché nessuno ha interesse a parlare con lei. Lei che avrebbe tante cose da dire, da insegnare, da far comprendere. Esperienza tra tramandare.
E quello che ha imparato da questo padre allora ostile con chi si recava dal sud nella ricca Torino per lavorare è che non ci possono essere pregiudizi, sentenze lanciate in aria come fossero verità assolute. Che tutti viviamo sotto uno stesso cielo e che nessuno è uguale all’altro.
Quel sorriso della bocca che non corrispondeva allo sguardo spento, a lei, all’anziana signora non è sfuggito. E allora si. C’è solo bisogno di trovare il coraggio per curare le proprie ferite e andare avanti, anche zoppicando purchè non si getti la spugna e si rimanga seduti a pensare o forse ad aspettare.
Bellissimo racconto, emozionante, coinvolgente, toccante. Un insegnamento di vita.