Se c’è un’assenza vuol dire che prima c’era una presenza, e rinunciare ad una presenza è praticamente impossibile.
Vagare nelle stanze mentre c’è chi dorme, vagare sulla punta dei piedi nudi, sui mattoni freschi, puliti, sui tappeti rugosi, entrare ed uscire dalle finestre sul giardino, rimanere al centro del giardino, ritrovare il proprio esilio. Poterlo fare perché qualcuno dorme, e qualcuno è ancora lì.
Ma non per questo uscire dal proprio dispetto. Tornare sulla panca, nell’arco del giardino, nel punto più freddo, tornare lì. Restare.
Così, Alberta si caricava una busta di libri, (lasciarsi alle spalle la casa, l’uomo che dorme, qualche animale troppo amato, tutto è troppo amato e induce all’odio), una serie di mobili e pareti che per un certo periodo rappresentarono il senso della vita, e marciare verso la panca. E rimanere in guerra.
Da lì, far finta di leggere, dormire piuttosto, cadere in una specie di inespressiva abulia, le guance rilassate, gli occhi semichiusi e lamine verdi in sogno. Sprofondare, qualche volta, a tratti, nel racconto di quell’altro illuso che per giorni e giorni ha avuto in mente una storia, una storia che non doveva morire. Un libro, poi un altro. Lasciarli uscire dalla busta e farli cadere in terra, tra i sassi, e l’erba, tra l’impenetrabile e il fecondo. Non risolvere mai il problema, perché il problema non ha soluzione. O meglio non è una soluzione esplicativa, ma è una soluzione incomprensibile. O meglio non risolve, elimina. In poche parole, pensa Alberta, vita schifa ti stai consumando.
Poi passa il tempo. Il mattino da fresco diventa sapone caldo, i petali a terra, si dissolvono. E lei controlla. La finestra. Quando uscirà suo marito, quell’uomo ridicolo in calzoncini corti. E’ sempre lo stesso uomo stinto, ogni giorno più bianco. La cerca, anche se gli ha fatto ben capire che non deve. Le è insopportabile che viva come se nulla fosse accaduto. Che possa rimanere nel suo centro misero, ancora è importante la stella a Natale, la colazione a Pasqua, l’onomastico, il compleanno. I suoi rituali aborigeni, pensa. I suoi teatrini di accredito.
Era nata così la loro tragedia.
Avevano una figlia.
Si solleva dalla panca sbiadita, dalle giunture rosse di ruggine, il corpo è appena più grave, la pelle appena più sgranata. E la maglia dei pensieri è troppo lenta. Lei si insinua ogni momento, a sorpresa. Lui la saluta, solleva una mano, poi si copre gli occhi dal sole, per osservarla meglio. Ma Alberta non ricambia. Gira su se stessa, sistema i cuscini sulla panca, risistema la schiena sul fondo della spalliera. E’ così costretta a girare nel suo bozzolo, mentre ogni creatura sembra libera in quel giardino, di offrirsi all’aria.
Se si solleva il vento, sembra arretrare la pena. Non può allontanarsi. E’ lì che i primi tempi ha stabilito il luogo del dialogo. Ha cominciato ad immaginare.
Immaginare è come avere una piccola asola nella pelle, in tutto segreto qualcosa che nel mondo non c’è, si fa assiduo, prende posto, abita.
Così, nel silenzio di ebetitudine che in quei giorni l’aveva inchiodata a quella panca, sotto l’arco di rose e clematidi, quell’occhio delicato si era aperto, si era fissato sull’idea che lì intorno c’era ancora sua figlia, che solo in quella sfera di ombra si sarebbero trovate, e che lei le avrebbe parlato di volta in volta, ora al sorriso esausto, ai capelli rossi, avrebbe tenuto fra le sue ancora la sua mano.
Aveva in odio l’uomo che la sollecitava, ogni tanto, con aria sfinita, e le predicava il suo ritorno in casa, tra le pareti domestiche, che le ricordava che avevano ancora un figlio.
Ride. Forte. E suo marito si gira a guardarla, neppure troppo sorpreso. Ormai lei fa così, da anni. Dal Viaggio. Dal figlio. Dal dengue.
Squilla il telefono. Alberta rimane a guardare il prato, il cerchio di sole che sfugge all’ombra degli alberi. Il marito rientra e lei lo sente parlare. Sono passati molti anni, a quanto pare. La voce del suo compagno è rauca, e lo specchio verdastro appena dietro una colonna, in casa, le mostra un corpo che rallenta, che cede, il suo.
Oggi è caldo, e dopo la telefonata, scende una coltre di silenzio. Non cessa il suo dialogo con Fiammetta. Ora le è accanto, si arrampica sull’albero e raccoglie le albicocche. Ecco, è cresciuta, ma poco. Non bastava avere quella figlia? Avere avuto tutto? La sua piccola testa rossa girare per casa, gli occhi del colore delle foglie. Le luci di Natale in giardino, l’asilo, le feste? Non per un uomo ambizioso, per un uomo che ha un disegno in testa, un quadro completo a cui attenersi, a cui piegare tutti. E alla fine del percorso di adozione loro avevano trovato il dengue. Che si era preso Fiammetta e aveva lasciato Gianni. L’Africa. Il ricordo di quello che aveva avuto e perso per un intruso, per un capriccio da intellettuale. Quell’uomo, eccolo lì, con gli occhiali sulla punta del naso, con la sua fanatica libreria, con i suoi articoli ben retribuiti. Chi aveva pagato per tutta questa scenografia? Fiammetta, lei, e forse anche Gianni.
Ora il suo guscio era la panchina. Gianni non aveva avuto una madre. Una ostile dea assisa su una panca, al centro di un giardino, anche d’Inverno, anche sotto la pioggia. Un buon padre pieno di intenzioni era invece stato suo marito. Meglio non riandare con il pensiero. Troppo caldo. Troppo odio. Se cala il velo rosso, Fiammetta sparisce.
Suo marito le è di fronte. Ci mette un po’ a rendersene conto, che ha avuto il coraggio inaudito di superare il confine che li tiene in vita. Smette di osservare sua figlia che si allontana dietro una Marmaid bianca, e porta lo sguardo sull’uomo. E’ lungo il tempo in cui lui la fissa, come se fosse sorpreso, turbato, di riguardarla negli occhi.
-Oggi viene Gianni.- le comunica. Ma lei tace. Non è furore quello che si addensa nel respiro di Alberta?
Allora lui si inasprisce, con una piega di disperazione:
-Fattene una ragione, questa è casa sua, lo è sempre stata. Oggi si è laureato, oggi viene da me a dirmelo. Poteva anche essere una gioia tua, ma tu non l’hai voluta-
Le gira le spalle. E lei gli si precipita sopra. Lo colpisce con le sue mani forti, le sue mani che avevano stretto la figlia, che l’avevano lavata, e accarezzata, e raccolta nella morte. Colpisce le spalle calde a cui si era affidata, la testa che aveva amato, ora quella nuca la sentiva più fragile, tocca di nuovo il padre di sua figlia, lo picchia, lo lacera, gli sputa addosso. Lui la stringe, più forte, e piange, e dice: -Fiammetta è morta. Basta, basta.- La stringe, la soffoca, la tiene avvinta nel tremito di anni di disperazione, di sopravvivenza. Le prende il volto, mentre lei spalanca la bocca in un grido muto, caldo, violento. E poi Alberta guarda intorno, e sua figlia non c’è più. Non appare, c’è solo il giardino. L’erba alta, la Marmaid disseccata, l’arco di rose non è che un rovo. Riporta con sgomento lo sguardo sull’uomo, che aveva tanto amato da cedere alla sua richiesta, andare in Africa, prendere un figlio. Riavere i corpi accanto. Riconoscere da quei corpi il tempo trascorso. Ricordare vagamente un uomo che cresceva, un uomo solo, un ragazzino che lei intravedeva dalla vetrata, lei fuori, nel suo esilio, e lui al tavolo della cucina, da solo, con i quaderni.
Prima di cedere, dirsi in continuazione: ricorda il dengue, ricorda la morte. E chiudere gli occhi. E andare a spasso con Fiammetta.
Ecco, cos’è il giardino. Un campo ingiallito. E l’uomo tace, e la scruta per riprendersi il suo viso, per riprendersi il suo amore.
Fa caldo. Loro sono due vecchi, sudati. Infelici. Tra un’ora un ragazzo cercherà di entrare per dire che la sua vita c’è, e non è colpevole.
Alberta lascia cadere le braccia. Lascia che suo marito la tenga ancora, provi con paura, ad accarezzarla. Poi lo prende per mano e lo conduce in un angolo del giardino, dove c’è una doccia. Manca un’ora. Gianni si è laureato. Meglio farsi trovare puliti, meglio non perdere più tempo.
-Laviamoci- pensa
Aziona la manopola della doccia. L’acqua cade sul terreno arso, schizza sui piedi, poi si addensa sui capelli, sugli occhi.
Stanno fermi. Stretti.