La casa di Ivana è piena di cose. Illuminate da mille e una luce. C’è sempre il sole a casa di Ivana. O c’è il buio nero come la pece. Ivana odia le ombre. Che sono false come le parole.
L’ho conosciuta così Ivana. A casa sua in un pomeriggio d’estate. Con mio fratello credo, o forse con Mirko. Con le finestre spalancate ad un fiume di voci e di musica. Ivana cantava, a volte suonava, a volte ballava, a volte fumava o beveva. Quando smetteva si sedeva in un angolo e metteva la testa tra le ginocchia. “Ascolto la musica”. Mi aveva guardato dal basso, col suo sorriso ingenuo e incantato e quello sguardo da bambina in attesa del mondo. Mi ero seduto vicino a lei, spostando borse, cuscini, un cesto pieno di pietre bianche levigate dal mare e gli improbabili resti di quello che forse un tempo era stato un amplificatore. “Hanno sempre storie da raccontare. Domande da fare, risposte da darsi o da farsi dare, gesti da interpretare. La vita è una musica da lasciare andare. Le parole, i pensieri sono note stonate. Siamo quello che vediamo, quello che sentiamo sotto la pelle, tutto il resto è solo una battuta sprecata, che potevi riempire di musica o di silenzio, e invece l’hai riempita di inutili bugie. Adesso ho fame.”
Dalla cucina alla stanza da letto era passato il tempo di una fetta di anguria da lavarsi la faccia e sgocciolare sul pavimento e un sorso di rhum caldo, a canna, da una bottiglia dimenticata sul davanzale. Quando mi alzai, da un non so bene cosa sul quale ci eravamo distesi, era notte fonda e l’unica “musica” che riempiva la casa era il fastidioso ronzare del frigorifero. Ivana dormiva e la luce della luna dalla finestra lasciata aperta le imbiancava la pelle nuda, scura di sole, rendendola simile ad una strana sostanza insieme metallica e fluente. Guardandola pensavo che non sapeva neanche il mio nome. Che avrei potuto essere chiunque, legarla, ammazzarla nel sonno, torturarla, rubarle quel niente che aveva. Che il nome almeno avrebbe potuto chiedermelo mentre mi faceva l’amore. Perché una cosa sapevo, che non mi aveva fatto sesso. Sesso e basta. Se avesse sentito i miei pensieri probabilmente ne sarebbe rimasta delusa: “Battute sprecate rubate alla musica o al silenzio”. Cercai a tentoni i miei jeans e uscii in cerca del bagno. Nel corridoio inciampai in qualcosa che doveva essere altrove. Non riuscivo a trovare un interruttore che funzionasse e in realtà cominciai a ricordarmi di non aver visto lampade. Specchi, un’infinità di specchi a riflettere la luce del sole, e ora quella bianca e livida della luna, ma nessuna lampada. Finalmente mi trovai davanti a una porta chiusa – ce ne erano altre di porte in casa?- Qualcosa di strano spuntava dal muro all’ingresso, una specie di manopola d’allarme, come quelle sui treni, e d’istinto mi venne da aggrapparmici come in cerca di aiuto, maledicendo il mio accendino dimenticato chissà dove e un qualche dio che non mi aveva dato la vista di un gatto. “E fu la luce!” o “Eureka!” va bene lo stesso, perché quello fu lo spirito con cui accolsi la pioggia di luce diffusa che da non so bene dove inondò quella che nel mondo di Ivana era la stanza da bagno. Indiana Jones alla ricerca della tazza perduta: mi mossi tra ordinate file di colorate scatole di cartone, tendine di carta di riso, uno scaffale pieno di vasi lisci e trasparenti di ogni misura, rigorosamente vuoti, un paio di grosse casse acustiche agghindate di cavi multicolori sospesi, ad altezza adatta a restarci affogati, a raggiungere un fantomatico stereo gigante dipinto sotto il soffitto. Dietro l’ultimo paravento trovai l’agognato tesoro ma non la fine dell’avventura o quantomeno il meritato riposo del guerriero. Da dietro la tenda che copriva la vasca infatti cominciarono a giungermi strani mugugni. La scostai il necessario per sbirciare dentro e scoprii che l’inondazione di luce stava dando un discreto fastidio a uno degli ospiti che con un singolare corredo di cuscini aveva trovato che quello poteva essere un ottimo rifugio dove smaltire la sbronza. “Ho trovato una che è più fuori di testa di me!” Rinunciai ai miei intenti e tornai sui miei passi alla ricerca stavolta delle mie sigarette e della porta di casa che mi avrebbe concesso almeno l’uso del giardino. Nella “stanza della musica” – qualcuno così l’aveva chiamata – scoprii, ripetendo il rito dell’inondazione di luce, che ormai sapevo gestire alla grande, che in realtà erano diversi quelli che erano rimasti. Mentre fumavo in giardino mi senti abbracciare da dietro. Ivana, completamente nuda, nella luce della luna, si stringeva a me, senza chiedermi niente.
E niente avevo da darle. “Le parole sono false, inutili note stonate che rubano tempo alla musica della vita.” Ivana però le mie parole folli le ascoltava tutte e le metteva in fila. Infilava collane di sogni con le quali riempiva i suoi vasi trasparenti. E me le annodava al collo e stringeva forte fino a soffocarmi quando quelle nuove suonavano diverse da quelle vecchie. Mi batteva i pugni sul petto, gli occhi pieni di lacrime e sangue, la rabbia e il dolore. “Mi hai detto io amo ogni cosa di te, mi hai detto sto bene, sto bene con te. Io non ti ho mai chiesto niente. Non ti ho chiesto quello che tu mi hai dato.” “E niente ti ho dato Ivana, che niente so darti, niente so dare.” Sono questo Ivana, un minuto, un istante, la passione del fuoco, il silenzio muto del ghiaccio, la calma pigra di un mattino d’estate, l’ira violenta di un uragano. Quello che sei tu. Quello che sei stata tu. Quello che credevo fossi tu. Ho una casa ordinata e pulita io, con lampade ed interruttori. Dormo in un letto normale e nella vasca non ci resta a dormire nessuno. Non esco nudo in giardino. Suono anche io. E canto. E uso le parole. Io si. Quelle che mi nascono dentro. Le parole vere e preziose, come gemme autentiche e grezze, non levigate dalla ragione. Le uso e le amo che non sono mai false. Sono false quando entrano nel cuore di un altro che ne fa quel che vuole, le stende nel tempo, le leviga, le ripulisce, ne ritocca il colore, fino a togliere loro ogni valore. Mi hai stretto le tue collane al collo urlandomi eccoti le tue pietre preziose, non sono che inutile bijoutteria. Sei tu che ne hai fatto questo, trasformandole. Non ti ho mentito una volta. “La vita è una musica da lasciare andare. Le parole, i pensieri sono note stonate. Siamo quello che vediamo, quello che sentiamo sotto la pelle.” Sono le tue parole Ivana, le sole che mi hai detto. E che mi hanno fatto sentire normale. Che la casa in ordine, il letto, la vasca vuota e forse le parole, anche quelle, non mi bastavano a sentirmi normale quando dalle stelle in un niente precipitavo all’inferno. Mi hai fatto sentire giusto, che potevamo suonare la stessa musica lasciandola andare. Alle stelle o all’inferno. E lasciandoci andare. Diversi e uguali, folli e normali. Per una volta senza ferire nessuno.
C’è mancato poco che non l’ammazzassi quella sera. La sera che l’ho trovata a casa mia che mi stava facendo a pezzi tutto, che mi si è scagliata contro che voleva fare a pezzi anche me. E fare a pezzi se stessa. Io ho faticato per accettarmi. Come ho faticato per imparare a controllarmi. Ho faticato per accettare che sono così. Che vivo di istanti. Che sommati possono anche fare una vita. Ma mai una sequenza ordinata. Non chiedo niente. Do quel che sento, senza pensare di dare. E lo dico, sempre. Non ho imparato a mentire.
Ieri mattina le finestre di Ivana erano spalancate ad accogliere un timido sole di primavera. Per me è un sole falso, una mezza misura. Lei era nuda in giardino e abbracciava qualcuno. ha fatto presto, proprio come me. In fondo avevo visto giusto. Il suo uragano dura solo un po’ di più. E non ha ancora imparato a controllarsi. Ho sorriso. Pensando a quei vasi vuoti. Pieni di pietre preziose tramutate in lacrime di vetro. O di note stonate tramutate in musica. Che Ivana, come tanti, come me anche, non ha saputo sentire.
Cinzia Craus