San Giovanni. Un nome che evoca nella nostra memoria la sabbia del deserto, la penitenza, le vesti di peli di cammello e luculliani banchetti a base di locuste. Mai nome fu più appropriato per l’ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento.
Costruito con la sabbia – come risulta dalle recenti cronache giudiziarie -, già all’ingresso del Pronto Soccorso – che forse di soccorso lo è, ma in quanto al “pronto” ci sarebbe molto da ridire – dà l’impressione di un accampamento simile a quello dei popoli nomadi del deserto.
Pazienti adagiati su lettighe lungo i corridoi; qualche rara, se non introvabile, sedia a rotelle, all’apparenza non omologabile stando a quanto previsto per legge; ammalati in attesa da lunghe ore.
Entrare al San Giovanni di Dio, è un incubo. Uscirne, magari vivo, un sogno.
Dopo un’interminabile attesa (5 ore per essere esatti) a seguito di un trauma cervicale, sembra che il sogno di venir fuori da quella bolgia si realizzi.
Ci si dimentica in fretta dell’attesa dinanzi la stanza del medico, di quella dinanzi la porta della radiologia, persino del fatto che dopo essere arrivati in ortopedia, ci si è visti costretti a tornare indietro perché dalla radiologia erano sì arrivate le radiografie, ma in compenso era stata dimenticata la diagnosi.
Vai avanti, indietro, su, giù, sbattuto da un piano all’altro.
Finalmente è finita. Esci fuori che è già sera (eri entrato nel primo pomeriggio), con in mano il certificato con la diagnosi e con in corpo tutta la nausea e dolori che un trauma cervicale è in grado di causare.
Collare e cure, nei giorni successivi sembrano non sortire effetto alcuno.
Trascorso qualche giorno, ti rechi dal medico curante e qui hai la prima sorpresa.
Alla richiesta da parte del tuo medico del certificato con la prognosi, rilasciato dal “Pronto (?) Soccorso” del nosocomio agrigentino, scopri che non ti è stato rilasciato e che l’unico documento che possiedi è quello della visita ortopedica.
Un brivido ti percorre la schiena. Tornare nell’inferno? Purtroppo non c’è altra soluzione. Entri nuovamente in quel corridoio di lettighe e pazienti. Passa un infermiere al quale ti rivolgi chiedendo se cortesemente ti può indicare a chi chiedere il certificato che – per ennesima dimenticanza – non ti è stato rilasciato.
Molto “cortesemente” l’infermiere ti passa dinanzi senza neppure guardarti. Torni allora a ripetere la domanda, ottenendo in cambio un “simpatico” gesto di fastidio e un altrettanto cortese “unnu vidi ca aiu chi ffari? (non vede che ho da fare?)”.
Tu, ignorante e ineducato, pensi che anziché dire quella frase colta, gentile e intelligente, avrebbe fatto prima a dire “si rivolga all’ufficio…”.
Irritato da cotanta gentilezza alla quale non sei abituato, rispondi con lo stesso garbo.
Per tutta risposta, con grande modestia e classe (e se quest’ultima non è acqua, sarebbe interessante scoprire cos’è il non possederla) il tuo interlocutore esordisce con la solita frase ad effetto tipica del lord inglese che non vuol far pesare i propri quarti di nobiltà: “Con chi crede di parlare? Lei non sa chi sono io…”.
Hai il dubbio di trovarti innanzi la Gran Duchessa Tatiana di Russia, anche se le apparenze ingannano e sembrano quelle di un infermiere che dovrebbe essere a servizio di quel pubblico che contribuisce al suo stipendio.
Vieni inviato ad un altro piano, al quale ti dicono che non spetta a loro darti il certificato, posto che è compito del Pronto Soccorso, ma, qualora tu ne facessi richiesta, loro sarebbero felici di esaudire il tuo desiderio dopo…quindici giorni.
Se al tuo medico serve prima, sono cavoli suoi ((e tuoi).
Ti balena così in mente, che nel campo nomadi denominato San Giovanni di Dio, esiste un Tribunale dei Diritti del Malato.
Sali le scale, svolti a sinistra, poi a destra, in questa sorta di labirinto dove si perde persino il personale del nosocomio, fin quando non incontri un tizio – che spinge la sedia a rotelle di un paziente – al quale chiedi l’informazione.
Buca. Il pover’uomo, è soltanto un parente dell’ammalato, che, vista l’assenza di ausiliari disponibili “collabora” con la struttura ospedaliera, trasportando da sé l’anziano zio in giro per gli interminabili corridoi.
Dopo tanto peregrinare, seguendo la cartellonistica che, ad onor del vero, riporta le indicazioni esatte, ti trovi dinanzi una porta chiusa.
Un cartello ti avvisa che l’ufficio è aperto il lunedì, il mercoledì, il venerdì, dalle ore 9.30 alle 12.30.
Sotto, su un foglio di carta attaccato con lo scotch, riporta il seguente avviso “Torniamo subito”.
In perfetto stile “bottega di paese”, il paziente – che di pazienza ne ha ormai ben poca – viene informato che i signori non sono al momento in casa.
Oggi è lunedì. Sono ancora le dieci del mattino. Fai l’errore di aspettare un’ora, convinto che qualcuno, prima o poi, arriverà.
Ore 11.00, non è arrivato nessuno.
Decidi allora di rivolgerti al posto di polizia all’ingresso, ma non sai ancora che ti attende un’altra sorpresa. Il posto di polizia è chiuso – dicono definitivamente – e quindi non hai a chi rivolgerti.
In testa rimbomba quel nome: San Giovanni.
Per un attimo, credente o meno che tu sia, pensi di rivolgere una supplica al Santo.
Improvvisamente, ti viene però in mente la sua storia e di come morì decapitato, tanto da essere ricordato come “San Giovanni decollato”.
Trauma cervicale sì, ma non pare che come cura sia prevista l’amputazione. Niente “decollato” dunque. Sconfitto, dolorante e senza certificato, non ti resta altro che passare dinanzi l’ “infermier cortese” e cercare di guadagnare al più presto l’uscita.
Guardi dall’esterno quella bella struttura che sai esser stata costruita con la sabbia e capisci il perché del comportamento da parte del personale (non di tutti ovviamente), che in maniera tanto carina ti ha bistrattato, ricordandoti il famoso “Lei non sa chi sono io…”.
Adesso lo sai, il trovarsi in mezzo la sabbia del nosocomio, ha confuso anche lui. Si tratta di un villeggiante in spiaggia.
Non meravigliatevi pertanto se domani doveste vedere gente che si rincorre con i secchielli, che gioca a bocce o con la palla, siamo al San Giovanni di Dio, laddove è possibile fare i castelli di sabbia, avendo cura di prenderla dai pilastri.
Non chiedete nulla e non disturbate. Chi è lì, è in villeggiatura. Comunque, è bene che sappiate che comunque non ci sarebbe nessuno pronto ad ascoltare eventuali vostre lagnanze. Il tribunale dei diritti del malato è lì, ma dietro c’è scritto “torniamo subito” (v. foto).
Un medico “distratto” non vi ha rilasciato un certificato? Sono problemi vostri, provate a rivolgervi a qualcun altro.
Chissà cosa ne pensa il primario che dirige il reparto dell’eccellente servizio offerto all’utenza e della gentilezza del suo sottoposto.
E chissà cosa ne pensa chi avrebbe l’obbligo di verificare che gli uffici siano funzionanti durante le ore nelle quali dovrebbero essere aperti al pubblico.
Ma si sa, questa è Agrigento e nessun Brunetta verrà mai a “decollare” chi, pagato con i soldi dei contribuenti, non fa il proprio dovere.
Ovviamente, non tutto il personale ospedaliero si comporta come i soggetti che abbiamo avuto la malaugurata sorte d’incontrare.
Esistono pure le persone cortesi e disponibili nei riguardi del paziente.
Ma, forse, proprio per questo motivo, sono tanto oberate dal lavoro che vi sarà veramente difficile incontrarle a chiacchierare lungo i corridoi o dinanzi la macchinetta del caffè…
Gian J. Morici
Nel vecchio sito era riportata la storia di una signora che pagava il ticket, per il rilascio di copia della la cartella clinica. Niente di strano, tranne che la signora, a cui veniva rilasciata regolare ricevuta, era deceduta da circa un mese Di che si sorprende?
Mi meraviglio del fatto che, a differenza di qualsiasi altro paese civile, questa gente continua a mantenere il posto di lavoro, mentre tanti disoccupati volenterosi e professionalmente preparati, continuano a passeggiare in via Atenea.
Mi meraviglia inoltre, che di quanto accade non se ne accorga il responsabile del reparto e quanti avrebbero l’obbligo di controllare.
Non mi meraviglia invece che possa esserci chi, forte di quanto sopra, abbia scambiato il posto di lavoro per un luogo di villeggiatura e i pazienti – nonchè contribuenti che pagano il suo stipendio – oggetti sui quali sfogare il proprio – e certamente giustificato – senso d’inferiorità.
La procura ci aveva provato a sequestrare questa specie di baraccone, ma grazie ai nostri politici è rimasto ancora aperto. Medici infermieri e portantini avrebbero bisogno di lavorare qualche mese al nord per capire cosa è un ospedale e come ci si comporta. A lei è andata bene. In questi giorni ho visto di peggio, ma purtroppo nessuno si lamenta o denuncia e quindi non succede niente.
Saggezza e cautela
Ci sono tre modi in cui è possibile guardare una moneta, tre diversi punti di vista: da sopra, da sotto e di lato. Ma qual’è la faccia giusta della moneta? Nessuna e tutte e tre , ma non possiamo vederle assieme. Non c’è alcuna posizione giusta e vera a priori, ma per cercare di restare aderenti alla realtà dobbiamo fare ogni volta lo sforzo di esaminare la cosa in sè in relazione al contesto stando inoltre attenti a come la guardiamo.
“Questa specie di baraccone” oppure ” tanti disoccupati volenterosi e professionalmente preparati, continuano a passeggiare in via Atenea” sono affermazioni corrispondenti alla realtà, ma quante volte questo ” baraccone” di Agrigento ha salvato la vita di tanta gente? E quanti medici volenterosi e professionalmente preparati o bravi infermieri o disponibili portantini, sono carichi di umanità?
E quando l’anno scorso la nostra Città ha corso il rischio di non avere più un ospedale, tanta gente è scesa in piazza per difenderlo. E’ comunque una grossa fortuna per gli agrigentini, con tutte le pecche possibili ed immaginabili, con tanti maleducati che lo infestano, con tanti ” inetti” che usufruiscono di uno stipendio immeritatamente. E’ comunque un bene. Sarebbero vitali e determinanti per la giusta professionalità, corsi per la formazione medica e infermieristica, ma soprattutto corsi per ” l’apprendimento dell’educazione”, ma non dobbiamo per forza lamentarci delle cose che non vanno e non lodare quelle che vanno. ” Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva. (Keating)
Condivido il fatto che ” baraccone” di Agrigento ha salvato la vita di tanta gente, che ci sono medici volenterosi e professionalmente preparati e bravi infermieri e disponibili portantini carichi di umanità.
Purtroppo non posso condividere il fatto che si sia voluto “salvare” il San Giovanni di Dio, perchè in qualsiasi altro paese civile si sarebbe guardato alla sicurezza dell’immobile – che val la pena di ricordare ANCORA SOTTO SEQUESTRO – e non all’interesse di amici degli amici e politici di turno.
L’angolazione dalla quale ho visto le cose, è quella che avrebbe dovuto portare al licenziamento di personale inefficente ed ineducato e al controllo da parte di chi preposto, su quanti, occupano inutilmente una stanza dell’ospedale, per tenere appeso dietro la porta un foglio di carta con la scritta “Torniamo subito”, come se si trattasse della bottega del pizzicagnolo di un paesino.
Fin quando continueremo a tollerare tutto questo, Agrigento non avrà futuro.
Un fatto del genere in un ospedale del Nord, avrebbe indotto chiunque a reclamare e l’ “infermier cortese” e semidio, avrebbe dovuto rispondere del proprio operato.
Purtroppo, siamo ad Agrigento…