C’era una volta un ridente paesello a ridosso di un mare che sbandierava con orgoglio il suo blu intenso (ma che all’occasione sapeva tingersi di verde smeraldo, nero inchiostro, malva, indaco, azzurro cilestrino eccetera, eccetera, eccetera).
Il reame era abitato da un popolo mite e silenzioso che era pronto al mugugno ma incapace di rivendicare i propri diritti e indignarsi per le ingiustizie, le brutture, la mediocrità camuffata dalla furbizia che dilagavano come un fiume in piena e occupavano tutti gli spazi della cittadella: i vicoli che portavano in alto, le crepe nei muri, le buche delle strade, le zone residenziali e le periferie dimenticate.
Il nostro piccolo regno era governato da un buon signorotto, Elfognomo Primo, discendente diretto di una stirpe di gnomi che più di cinquant’anni prima si era insediata nel Palazzo di città, governando, da allora, ininterrottamente. Ogni tanto, a dire il vero, c’era qualche tentativo di insurrezione. Ad un anno dall’incoronazione di Elfognomo Primo, per esempio, gli usurpatori erano riusciti a spodestarlo e a governare per un lungo periodo, ma tra di essi c’erano molti discendenti diretti e indiretti della stirpe degli gnomi per cui, alla fine, tra litigi e contumelie, avevano dovuto ritornare lo scettro del potere a Elfognomo.
Elfognomo Primo aspirava a vivere in pace con se stesso e con gli altri per cui mal sopportava gli oppositori ed amava circondarsi di gente sempre pronta a dirgli di si, a correre ai suoi impercettibili segni del capo, a non contraddirlo perché chiunque avesse un’opinione a lui contraria era dichiaratamente cretino (due suoi lontani parenti erano i sarti che avevano estorto al Re Citrullo Secondo un milione di monete d’oro con la bella storia del tessuto magico che poteva essere visto solo dalle persone intelligenti).
Il motto di Elfognomo per far felici i suoi sudditi era: “Meglio non fare che fare, perché a fare si può anche sbagliare”.
Elfognomo Primo, per questa sua avversione per qualsivoglia opposizione, aveva bandito dal regno le piccole fiammiferaie, perché le capocchie dei fiammiferi che vendevano erano incommensurabilmente rosse; aveva condannato al silenzio il grillo parlante, Peter Pan e Pinocchio perché con le loro assurde storie che venivano raccontate la sera prima di andare a letto avevano distratto i regnicoli; aveva esiliato Biancaneve, Cenerentola e la Bella addormentata nel bosco perché aspettavano il principe azzurro mettendo in discussione il fatto che l’unico principe azzurro fosse lui e aveva cancellato dal Libro Sacro ogni riferimento al Giudice Sapiente perché non esisteva e mai era esistito un Giudice capace di amministrare la giustizia giustamente!
Elfognomo Primo possedeva sei specchi magici, tre sistemati nelle sale pubbliche e tre nelle sale private del Palazzo di Città.
Ogni mattina li consultava chiedendo: “Specchi, specchi delle mie brame c’è qualcuno che racconta bugie su di me nel reame?” e se gli specchi rispondevano che in un angolo sperduto, in una contrada nascosta, in un lembo dimenticato c’era qualcuno che osava raccontare fole sul suo conto subito le sue guardie partivano al galoppo per ritornare con le corde vocali dello scellerato oppositore dentro un cofanetto di vetro.
Lentamente ma inesorabilmente, tra esili, epurazioni, licenziamenti, sparizioni, improvvise perdite della voce, il ridente paesello fu ridotto al silenzio e molti furono costretti ad andarsene.
I pochi abitanti rimasti, assaliti da una noia mortale, caddero in un sonno profondo e vani furono i tentativi di Elfognomo e dei suoi specchi magici di risvegliarli. Vane le risate, gli applausi, le canzonette, le minacce, i girotondi.
Col tempo le erbacce ricoprirono muri, strade, case, scuole, chiese, templi e oggi “del nostro paesello non c’è quasi più traccia, è rimasto lì, tra le due colline, come un mucchio di rovine abbandonate”.
Stretta è la foglia, larga è la via, dite la vostra (finché potete) che io ho detto la mia.
Occor Ail*
* Visti i tempi bui preferisco usare uno pseudonimo ricavato utilizzando un antichissimo codice cifrato!