Per decenni abbiamo creduto – o facevamo finta di credere – che nelle aule dei tribunali la giustizia venisse amministrata sempre da una magistratura super partes che rispondeva soltanto alla Legge e alla propria coscienza.
Il “caso Palamara&C” ha svelato, se mai ce ne fosse stato bisogno, come dietro la nomina anche di un singolo magistrato ci fossero giochi di potere che nulla avevano a che vedere con meriti, titoli o quanto altro dovrebbe essere alla base di una qualsiasi carriera nella pubblica amministrazione.
Partite a carte degne della più squallida delle bische clandestine, dove la posta in gioco è un centro nevralgico di potere (e non di amministrazione della giustizia) al cui tavolo siedono gli appartenenti alle correnti della magistratura, i politici e Dio solo sa chi altri.
Eh sì, perché i giochi non si fanno soltanto nelle stanze del Consiglio Superiore della Magistratura, dove occhi e orecchie indiscrete potrebbero intercettare quel che non si deve sapere, tant’è che nonostante nel 2016 la riforma del regolamento del Csm abbia stabilito che fosse sufficiente la richiesta di due dei sei membri di ogni commissione perché le sedute avvenissero in pubblico, i fatti più recenti hanno dimostrato come la tanto decantata trasparenza a Palazzo dei Marescialli non ci sia mai stata, e non c’è mai stata perché i maneggi correntizi, per decretare la nomina di un procuratore capo o il trasferimento di un magistrato, in realtà non avvengono in commissione ma altrove.
L’appartenenza alla corrente è indispensabile per il magistrato in carriera, perché se è pur vero che lo stipendio si basa sull’anzianità, la promozione di ruolo è stata da sempre determinata dal reciproco scambio di favori tra correnti. Soltanto di favori tra correnti si tratta?
Un caso, sicuramente uno dei tanti, che sembra riguardare il “mercato delle nomine” – così come lui stesso lo ha definito – è quello di Guido Lo Forte, ex Procuratore di Messina. Lo Forte, nel 2014, era in corsa per la poltrona di Procuratore Capo di Palermo. Un arrivo quasi certo visto che per lui erano arrivati i 3 voti della Commissione mentre gli altri candidati, Lari e Lo Voi, avevano incassato un solo voto a testa. Lo Forte poteva contare su un curriculum d’eccellenza che lo aveva visto protagonista di una guerra a quella criminalità in “giacca e cravatta”, senza la quale i mafiosi “coppola e lupara” sarebbero soltanto dei miserabili sanguinari. Lo stop alla corsa, arrivò direttamente dal Quirinale, con un sollecito a ben altre priorità che se soltanto il Csm fosse stato un organo di magistratura indipendente, avrebbe potuto affermare la propria autonomia procedendo ad una nomina immediata. Così non fu e i risultati si capovolsero. Franco Lo Voi fu scelto con 13 voti, nonostante Lari e Lo Forte vantassero esperienze direttive e semidirettive in uffici giudiziari antimafia, e una maggiore anzianità. Il Tar, nell’accogliere il ricorso dei due candidati sconfitti, e annullando la nomina di Lo Voi, sentenziò come se un candidato possiede un curriculum meno idoneo sul piano del merito e delle attitudini, , occorre “un onere speciale di motivazione rafforzata, secondo logica e razionalità”.
Criteri che ad avviso del Tribunale Amministrativo non erano stati riscontrati per la nomina di Lo Voi a Procuratore Capo di Palermo. A ribaltare nuovamente il tutto, fu il Consiglio di Stato, secondo il quale la scelta del Csm era stata coerente, avendo valutato l’esperienza di Lo Voi, per anni membro italiano di Eurojust, in un’ottica di un giudizio complessivo e non soltanto limitandosi all’esame dei ruoli ricoperti in incarichi analoghi a quelli a cui aspiravano gli altri partecipanti.
A nulla valsero dunque le esperienze maturate, gli attacchi ai patrimoni mafiosi,le indagini sulle infiltrazioni mafiose all’università, le inchieste sulla formazione, i milioni di euro riportati nelle casse dello Stato.
A tornare sull’argomento, con un’intervista rilasciata al giornalista Aaron Pettinari di Antimafiaduemila, è lo stesso Guido Lo Forte, le cui parole lasciano intuire come al di là delle correnti e delle commissioni, le carte le dà il potere, in quel caso, l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Alla domanda del giornalista se anche lui nel 2014 fu vittima di un sistema, ecco cosa risponde:
“Di questo ‘mercato delle nomine’, e degli interventi ‘a gamba tesa’ della politica ho avuto anch’io personale esperienza, quando nel 2014, sebbene fossi il primo in graduatoria e già designato a larga maggioranza dalla commissione incarichi direttivi del CSM all’incarico di procuratore della repubblica di Palermo, la mia imminente e quasi certa nomina venne bloccata dal Presidente Giorgio Napolitano, con una lettera firmata dal segretario generale della presidenza della Repubblica che – in attesa di un mutamento negli equilibri del CSM, e cambiando le regole mentre il concorso pubblico era in pieno svolgimento – adduceva la necessità di rispettare, anziché un ordine di precedenza basato sulla rilevanza e delicatezza strategica dell’ufficio direttivo da ricoprire, un inedito ‘ordine cronologico nelle procedure di nomina’ (criterio che non era mai stato applicato prima, e che ovviamente non lo è mai stato neanche dopo). Il CSM, che avrebbe dovuto puntare i piedi in difesa della sua autonomia, non fece nulla (a parte alcuni consiglieri, che contestarono invano il diktat presidenziale, parlando di un ‘CSM sotto tutela’ e di un ‘Consiglio dimezzato’).”
Cos’altro aggiungere?
Gian J. Morici
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