Giorni fa abbiamo letto sui giornali e visto in televisione che, durante una festa organizzata non so da chi e quanto legittimamente nell’area della prima Università degli Studi di Roma, “La Sapienza”, un giovane che aveva voluto introdursi in quell’area scavalcando l’alta cancellata era rimasto ferito da una delle punte caratteristiche di quegli arnesi e disgraziatamente era morto, pare dissanguato.
Deprecabile incidente. L’occasione: una festa, l’età della piena giovinezza della vittima, la banalità del comportamento che aveva causato l’incidente mortale. Tutto sembrava e sembra sommarsi per aumentare l’amarezza dell’episodio e di quella giovane vita troncata.
Ma (c’è sempre un “ma” di una eventuale stoltezza umana) qualcuno che dovrebbe perseguitare le nefandezze e gli errori degli uomini che le leggi specificamente dichiarano meritevoli di una pena, si è inteso investito del potere-dovere di perseguire il fatto in sé, in quanto amaro e, soprattutto, in quanto clamoroso. Al clamore di una disgrazia, deve (così c’è chi la pensa) far seguito la consolazione nel trovare un colpevole.
E’ un’assurdità morale prima ancora che giuridica. Ma non è inconsueta. Anzi è assai diffusa. E non solo tra coloro che esercitano come un’attività tesa a procurarsi soddisfazioni personali la funzione di fare giustizia, ma anche tra “la gente”, tra il pubblico che applaude quando si trova un colpevole nientemeno che di un terremoto (è, del resto, avvenuto anche questo). La gente, che con i suoi applausi, si costituisce complice necessario dell’”uso alternativo della giustizia” o, almeno di uno di tali usi, quello di soddisfare il senso di compiacimento dei padroni della legge che, così, si sentono i riequilibratori delle cattiverie della fatalità.
C’è un morto? Fuori il colpevole!
Non doveva, poteva non morire. E’ morto. Qualcuno paghi. Se no la giustizia vindice perde colpi.
Dico tutto questo perché alla notizia del caso luttuoso ha fatto seguito quella: “La Procura ha aperto un’indagine sull’accaduto”.
E, quel che è peggio, ci sono sentenze, i distillati della scienza e della moralità di questi uomini dediti al mestiere di essere giusti, che stabiliscono una responsabilità per colpa di chi munisce il proprio giardino, la proprietà sua di un’inferriata con punte “pericolose”, se qualche ladro ci si va ad infilzare.
Già, pericolose. Nel caso, quindi omicidio colposo.
Pericolose per chi? Per i passanti? Per gli Angeli che vadano svolazzando per il Cielo troppo vicini a questa terra di lacrime? No. Per chi voglia, violando il diritto di proprietà ed il legittimo possesso, scavalcare la cancellata anziché andare a bussare alla porta. E, notate, la “colpa” non sarebbe quella di aver occultato quegli acuti spuntoni che so, sotto una non trasparente cortina di verde rampicante, ma di averli messi lì a dimostrare tutta l’impraticabilità di quella illegittima e delittuosa via di accesso.
Non bisogna essere Salvini per invocare un diritto di legittima difesa. Perché, in effetti non c’è nemmeno alcuna attività in sé diretta a provocare lesioni o morte dell’illegittimo visitatore dell’altrui proprietà.
Io mi auguro di non vedere il Magnifico Rettore dell’Università degli Studi La Sapienza sul banco degli imputati per aver munito di cancellate il perimetro dell’Università. Se non altro perché, altrimenti dovrei preoccuparmi del fatto che, qualcuno potrebbe andare a schiantarsi con un’auto contro le mura della mia casa “troppo pericolosamente dure” oppure dovrei preoccuparmi di non tenere in casa veleno per i topi, che un ladro potrebbe ingoiare per uno spuntino “sul lavoro” scambiandolo per un biscotto. Certo, così priverò i famigliari delle vittime di incidenti deprecabili della “consolazione” di avere un colpevole, qualcuno con il quale prendersela. E, soprattutto, mancherò ancora una volta di rispetto alla Magistratura, non affidando ad essa il mio senso della ragione.
Sissignori. C’è un senso della ragione che dovrebbe illuminare il mondo.
In quello io credo. E so che non è patrimonio di nessuna Casta. Né delle folle urlatrici.
Mauro Mellini