Ho sotto gli occhi scritti vari di commento alla tragica situazione in cui versa il nostro Paese.
Per caso vedo assieme sul tavolo quattro post. Una intervista, in data 3 giugno, all’economista Francesco Gavazzi e tre articoli di Guido Vitiello pubblicati su “Il Foglio” tra il 19 e 26 maggio.
Nel mare di parole a vanvera sul Governo (cui si è attribuito un “colore”: gialloverde, i colori della muffa) potrei dire che c’è in quelle pagine tutto quanto è necessario capire e su cui riflettere per valutare l’effettiva gravità tragica della situazione.
L’estrema sintesi delle chiarissime parole di Gavazzi: “il programma economico di questo governo è tutto in un progetto di diversa distribuzione della ricchezza e nulla sulla produzione, l’aumento e la conservazione di essa. E’ il modello argentino che è arrivato ad empire le tasche dei cittadini di carta straccia e alla bancarotta”.
Forse perché assai poco mi intendo di economia, ma non tanto poco da non sentire quando i discorsi diventano fanfaluche, mi pare che basti. Anche se c’è, purtroppo, molto altro.
I tre articoli di Vitiello riguardano invece la fisionomia culturale (si fa, naturalmente per dire), la natura vera del Cinquestellismo, del Leghismo.
Leonardo Sciascia scriveva che vi sono verità che solo la letteratura può cogliere.
La letteratura, la storia. Attraverso le quali il pensiero, come entità anche collettiva si coglie nella sua continuità.
Vitiello, cosa che mi era sfuggita nei giorni scorsi, sembra spinto a riconoscere negli avvenimenti di oggi un continuum con quelli degli anni dell’ascesa del fascismo al potere. La cosa da una parte mi conforta perché qualcosa di analogo vado predicando al vento da qualche tempo. Dall’altra, ovviamente mi sgomenta.
E’ inutile che dica che l’analisi di Vitiello è di una raffinatezza esemplare, resa possibile da una grande padronanza di una letteratura dimenticata: (Golia-Marcia del Fascismo di Borgese; Lo spaccio del Bestione trionfante di Adriano Tulgher nell’edizione di Piero Goretti, sono due libri le cui copertine figurano nei post).
E poi uno scritto commemorativo di Tortora con opportune considerazioni su chi, oggi, tende a ricordare il suo caso come un “errore giudiziario”. Cosa che può permettersi persino un Travaglio, per occultare la verità, gridata con coraggio dallo stesso Tortora ai suoi giudici nel processo d’Appello, quando negò che di errori, di buona fede si fosse trattato, ma di un vero delitto “per ragioni di corporazioni”, come si disse nel caso Dreyfus.
Tortora seppe fare della sua innocenza, del suo caso, un problema politico: quello della giustizia al servizio delle ragioni stesse di casta di chi la amministra. Una battaglia dimenticata anche da quelli che gli erano stati attorno.
Era la denuncia di una devianza eversiva della magistratura che di lì a poco avrebbe cominciato la sua opera di demolizione della Repubblica.
Nell’articolo del 26 maggio, Vitiello scrivendo della gaffe del povero Toninelli sullo “Stato etico”, fa una considerazione fondamentale sul mito dello “Stato degli onesti”. La questione, scrive Guido, è in quella pretesa insita nel “degli” onesti. Perché implica che deve essere fatta una discriminazione che consenta di stabilire a chi appartenga lo Stato e chi ne deve essere addirittura escluso, espulso. Da “Stato etico” diventa “Stato etnico”, del popolo eletto, della “razza” buona.
E’ il percorso verso lo Stato totalitario. I Cinquestelle è assai discutibile che possano definirsi tipicamente onesti. Ma pretendono che lo Stato sia “degli onesti”, cioè di loro e solo di loro.
Ma forse ciò che più mi angoscia per la sua verità è il paragone che Vitiello fa tra certi liberaldemocratici “ottimisti” che generosamente predicano un “adattamento” della proterva violenza insita nel Cinquestellismo alle “buone maniere”, alle esigenze delle responsabilità di governo. Come certi giolittiani degli anni ’21-24.
E questo accostamento, che io stesso non avevo potuto fare a meno di cogliere, che, francamente mi angoscia.
Ma ignorare la verità sarebbe delitto.
Mauro Mellini