Serge Atlaoui, il saldatore condannato a morte in Indonesia sembra avere le ore contate anche se è stato momentaneamente tolto dall’elenco del gruppo che passerà davanti al plotone di esecuzione. Atlaoui è stato condannato nel 2007 alla pensa di morte per traffico di droga in Indonesia dopo l’arresto avvenuto nel 2005 in un laboratorio clandestino per la produzione di ecstasy. La Corte suprema indonesiana ha già respinto il ricorso. Serge Atlaoui non ha mai smesso di proclamare la propria innocenza ed il Governo francese sta agitandosi sempre più contro quello indonesiano minacciando la rottura diplomatica. Il Presidente Hollande ed il Ministro degli Affari Esteri Fabius si sono alleati alla famiglia dell’uomo per chiedere la clemenza. Le petizioni ottengono i giusti consensi ed Amnesty affianca la moglie Sabine nella lotta contro il tempo. Come fa notare Amnesty, se giustiziato, Atlaoui sarebbe il primo francese a passare davanti al plotone di esecuzione in 38 anni. La giustizia indonesiana è messa in discussione anche dalle alte sfere. Il processo ha mostrato molte incoerenze con un diverso trattamento degli imputati. Ma non è più questo il punto.
Mentre il portavoce degli Affari esteri minaccia di “gravi conseguenze” l’Indonesia, blocco economico compreso, l’avvocato di Serge Atlaoui, Richard Sédillot continua a sostenere gli appelli alla grazia e non cede.
Che il Governo francese agisca in favore di Atlaoui è giusto, lodevole e doveroso perché di pena di morte si parla ma che le minacce possano sfiorare il Governo indonesiano è alquanto improbabile.
Il peso economico della Francia è minimo, il paese è soltanto al 18° posto tra i partner commerciali dell’Indonesia. Lo stesso avvocato Sédillot ne è cosciente ed ha chiesto l’intervento della comunità internazionale e dell’Unione europea.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon si è finalmente rivolto al Presidente indonesiano per chiedere la grazia non solo del francese Atlaoui ma anche degli altri condannati a morte. Sono dieci a dover passare davanti al plotone di esecuzione. Un indonesiano, due australiani, una filippina, un ghaneano, un brasiliano, tre nigeriani sempre condannati per traffico di droga. Ban Ki-Moon ha reagito dopo che i condannati sono stati trasferiti nel penitenziario sull’isola di Nusakambagan dove avvengono le esecuzioni. I due australiani e la filippina Mary Jane Veloso hanno già ricevuto la notifica di esecuzione. La mamma filippina dovrebbe essere giustiziata martedì 28 aprile.
Il problema non è quindi franco-francese ma internazionale. Il problema è la pena di morte.
Il caso di Serge Atlaoui può attirare l’attenzione internazionale sul grave problema delle esecuzioni in Indonesia perché purtroppo, è triste dirlo, quando sono gli indonesiani stessi ad essere uccisi o i cittadini di altri paesi come le Filippine che si sentono lontani, le pressioni governative e mediatiche si fanno molto più deboli. L’urlo di dolore è fievole. E questo senza nulla togliere al dolore di Atlaoui e della sua famiglia.
L’esito di questa vicenda si conta in giorni e se Atlaoui dovesse essere graziato la pressione dovrà restare perché non si tratta “solo” di dieci condannati. Dietro di loro altri aspettano l’inesorabile fine.
Va detto che l’irremovibile Presidente Joko Widodo, eletto nell’ottobre 2014, considera la lotta alla droga come un’urgenza poiché il paese conterebbe almeno cinquanta morti al giorno per uso di stupefacenti. Lotta alla droga non significa però pena di morte.
Non va neppure dimenticato che soltanto l’11% degli indonesiani si è dichiarato contro la pena di morte. Se i sondaggi sono esatti, Joko Widodo può contare sull’84,1% dei favorevoli alla condanna. Già cinque stranieri sono già passati davanti al plotone di esecuzione dall’inizio dell’anno. Senza contare gli stessi indonesiani.
Non si capisce perché la comunità internazionale non possa agire di comune accordo contro la pena di morte nel mondo e non solo in Indonesia. Brasile e Paesi Bassi non sono riusciti a bloccare l’esecuzione dei loro cittadini ma almeno l’Europa ed i suoi dirigenti che proprio in questi giorni stanno visitando i resti dei campi di concentramento, festeggiano la liberazione e dichiarano di condividere i valori umani dovrebbero dare più spazio comune alla lotta contro la pena di morte nel mondo invece di provare ad agire solo quando uno dei loro cittadini è in pericolo. Le vite non hanno nazionalità, o almeno non dovrebbero. Così come non dovrebbero avere nazionalità le stragi perpetrate per mano dell’uomo o le catastrofi naturali. Non si può essere “buoni” solo sotto casa propria.
Luisa Pace