Totò Marasà, condannato per violenza carnale sulla figliastra, e mai condannato per la forse violenza carnale sulla figlia, padre di un prete che cambiò il cognome, prestava servizio, ironia della sorte, presso il grande Parco dell’Addolorata. Che servizio prestasse non era dato sapere di preciso: un giardiniere sorvegliante autogestito, ovviamente quando presente sul posto. Ed il posto era talmente ampio e pieno di anfratti, e macchie mediterranee, e viottoli, e recinzioni, che per trovarlo potevi girare tre giorni e non trovarlo lo stesso pure quando c’era.
L’unico segno del suo passaggio, se non della sua presenza, era dato dal momentaneo parcheggio, nel lungo viale d’accesso, del suo mezzo di locomozione: un’apecar, cioè una di quelle piccolissime lambrettine che si guidano senza patente, dotate di un microscopico cassone, dalle mie parti utilizzate da chi consegna bombole a domicilio o raccoglie cartone o ferrovecchio per guadagnare pochi spiccioli.
E Totò questo secondo mestiere non lo disdegnava, anzi lo nobilitava esercitandolo spesso come prioritario e con più dedizione di quanto dedicasse a quello per cui percepiva un regolare stipendio mensile da parte del comune.
Baffo da sparviero, un paio di denti mancanti sul davanti, scuro, occhi verdi e vivacissimi, basso e leggermente tarchiato, questo era l’essere che cercavo quel giorno al Parco, certo di non trovarlo.
Da lontano vidi l’apecar blu notte. Mi avvicinai lentamente, quasi a non voler interrompere il miraggio.
E che di miraggio si trattava ne ebbi sia il dubbio che la conferma quando vidi che sul cassone c’era una forma indistinta, certamente una persona, distesa in quei pochi metri quadrati che l’ombra di una palma riparava dalla calura del mezzogiorno di un sole di maggio siciliano.
Eccolo lì Totò Marasà, nel pieno esercizio delle sue funzioni!
Accelerai d’istinto. Giusto il tempo per avvicinarmi di una ventina di metri che altrettanto d’istinto mi bloccai: sdraiata sul cassone dell’apecar, sola, era una donna.
Appena mi scorse si alzò in posizione semiseduta, su un fianco. Mi apparve un seno felliniano a stento trattenuto da un top nero, un paio di cosce come prosciutti di parma che spuntavano da una minigonna a spicchi bianchi e fragola, un paio di labbra rosse color primo maggio.
La salutai. Chiesi notizie su Totò. La signora mi disse che era a “lavorare” e accompagnò la parola con un gesto vago della mano che poteva indicare qualunque direzione io preferissi. Poi, non richiesto, mi informò che era “la moglie”.
Ed in quel momento, per una strana associazione d’idee, mi vennero alla mente quelle prostitute sedute a bordo di Porsche e Mercedes che, in una notte di tantissimi anni fa, a Napoli, aspettavano i clienti.
E provai simpatia e tenerezza per quella donna sdraiata su un’apecar…
Domenico Savio Lo Presti