Lo sentivo che noi non eravamo “regolari”. Quando l’ho percepito non saprei dire. Ma comunque poi, ora me ne accorgo, ci ho fatto a botte tutta la vita. E’ stata una continua oscillazione: essere come gli altri, essere diverso dagli altri, soffrire di non essere come gli altri, soffrire di essere diverso dagli altri, alzare la cresta sulla stessa diversità, con una certa disperazione, affermando di essere indubbiamente migliore. Mai raggiunto un equilibrio. Mi aspettava una casa diversa, ragionamenti diversi, comportamenti fuori norma. Reazioni che registri come negative, socialmente indesiderabili, e che un bel giorno ti accorgi di avere incamerato talmente bene che non ci metti niente a riprodurle.
Ed anche stare da soli non era possibile. Gli altri non erano che un incontro pieno di frustrazione, ma per gli altri si nutre sempre una passione. Anche se ti dicono che “siete tutti strani”, quando protesti perché barano mentre giocano. Tu li guardi e ti pare di non vederli più. Ti allontani velocemente, come se fossi risucchiato in un gorgo di vento, verso il centro del tuo cuore che tonfa come un motore ingolfato. Ma insomma vai avanti, cresci comunque, e qualche volta sei pure felice. Ma la normalità proprio non vuole visitarti, viaggia separata dalla tua storia, e ogni incontro in cui speri è senza speranza, come se tutto fosse già descritto sopra la tua testa, il sangue stesso ne parla, nelle notti di veglia furibonda, il sangue stesso scorre negli snodi con tanta malavoglia e insieme disperazione. Mi fermerei qui, tanto ormai vi siete fatti un’idea, quelle vite che non si allineano mai, pur volendo. Quelle storie mai tirate per le lunghe, perché gli altri nel tempo non si accorgano di te, della razza tua, della vera faccia del tuo destino,e fugacemente ti registrino leggermente alterato nella foto della realtà, ma ancora a fuoco, dentro il quadro. Non sempre ho avuto questa accortezza. Amavo tutti appassionatamente, e finivo a pensarli cupamente, a indovinare in ogni loro gesto il rifiuto, l’inizio dell’abbandono, la delusione, la condanna. Ed evitavo poi di presentare la mia famiglia, la casa con le porte senza maniglie, il muro scrostato dai graffi del cane, gli sguardi di mio fratello, troppo vicini, troppo fissi, l’idea di mia sorella di sposare ogni uomo portassi in casa, mio padre che faceva domande aggressive, o iniziava una lite nel bel mezzo di un pranzo. La gente mi abbandonava o io abbandonavo loro, per la vergogna e il disagio. A volte guardavo la casa, la famiglia, e provavo una penosa stretta come un morso. Mi riproponevo di essere dalla loro parte, di essere infine come loro. Ma l’ennesima stupidaggine mi ricopriva di rossore, di delusione, di sfinimento.
E intanto io riuscivo. Riuscivo, emergevo, pur nella mia stranezza, nel mio isolamento, nella perfidia delle mie ore arrovellate, riuscivo bene,mi promuovevano a scuola, là dove i miei fratelli avevano mietuto insuccessi, acceso risse, provocato malanimo. Riuscivo nel lavoro, ero il predestinato, e mio padre lo sapeva. Se uscivo mi agganciava i fratelli, più grandi, più sani, più soli, se rifiutavo mi denigrava, mi obbligava con sguardi amareggiati. Ogni incontro assumeva i connotati esaltanti e avvilenti della speranza e dell’ultimo desiderio. Non iniziavo la vita, non potevo. Eseguivo i percorsi obbligati all’esistenza, ma non avevo idea che si potesse sfuggire a quel recinto: casa, famiglia, stranezza, rifiuto, solitudine. Così se lei non mi avesse amato, se non fosse stata estranea come me, al mondo e alla sua storia, non avrei mai rescisso la corda spessa che mi cingeva, non sarei mai uscito dalla casa, e mentre me ne allontanavo l’idea stessa delle macerie mi si addensava sul capo. Sentivo la rovina dei miei che non mi avrebbe mai abbandonato, era il tarlo nella gioia, era la cenere spazzata e rimasta nascosta sotto la saggina della scopa. Nonostante tutto andai a vivere con lei, e dicevo a me stesso che avevo una casa, ci ero riuscito, e con minuzia decidevo della perfezione delle stanze, del loro decoro, da opporre all’insensato disordine della casa in cui ero cresciuto, l’abbandono dopo la scomparsa di mia madre, l’inarrestabile cadere della bellezza, della ragione, della grazia. Ora io rivolevo tutto questo, con accanimento, e lei non capiva cosa andavo cercando, perché le contassi i passi, le ingiungessi la perfezione, perché io temevo la caduta, temevo il burrone che richiamava il mio cammino, che avrebbe strappato dalla mia vita la maschera. Guardavo le stanze della mia casa, e non ne percepivo la dimensione, la profondità, mi apparivano scenari disegnati su lenzuoli bianchi, pronti ad essere strappati via per svelare una realtà fatta di divani bucati, ante divelte, vetri sporchi, pavimenti polverosi, bagni macchiati. Infine, la follia. Non capiva perché non volessi figli, ma quanta grazia avrei potuto strappare alla sorte? Se non ce l’avesse fatta? Con un padre come me, una madre fragile e sognante come lei, così innamorata, ingenua che si era accontentata di uno spostato nell’anima. Le negai i figli, le negai di riconoscere quanto fossero graziose certe eccentricità nell’arredamento, nei suoi abiti. Io volevo essere grigio, inapparente, fermo e normale. Volevo essere raccontato dal vicinato come il perfetto neutro normale. Avevo paura, e così riconobbi finalmente quella che era la mia diversità: contraria a attratta alla mia origine: quanto la mia famiglia s’era abbandonata tanto io tendevo i fili al centro del petto per tenere ferma la marionetta. E così mi ruppi. Questo almeno, risultò “regolare”. Al medico che parlò con lei, così bella era, e bionda, afflitta ancora meglio e io sapevo che sarebbe andata via. A breve. I miei, non vennero mai a trovarmi. E finalmente di loro non so più nulla.