E ci voleva una sentenza per sancire che il reato era inesistente…
A vivere questa esperienza – e relativo processo -, la giornalista Antonella Serafini, che descrive i particolari di questa storia sul sito censurati.it:
Quella che segue non è solo una cronaca di un abuso fatto nelle aule di giustizia dove si legge in bella vista “la legge è uguale per tutti”, ma anche (e soprattutto) una storia di sperpero di denaro pubblico, una storia di solidarietà verso chi chiedeva una mano, una storia su chi, forte di una toga, decide di negare l’ennesimo diritto: quello di fare di un pubblico processo, un “pubblico processo”. Non si annoi il lettore nel leggere di un caso giudiziario che non lo riguarda, perchè finchè un innocente che non ha commesso alcun tipo di reato si ritrova imputato in un processo penale per cinque anni… beh, il problema non è solo di chi diventa il protagonista di questo circo ma di tutti gli innocenti che per una prova di MUSCOLI tra chi ha il potere e chi non lo ha, potrebbero ritrovarsi nella stessa situazione.
Andiamo con ordine: Una donna, anni fa, fu accusata dalla sua potente famiglia d’origine di aver accoltellato un fratello. Un processo che trascinerà questa donna, madre di tre figli, ad una continua lotta per la sopravvivenza, sua e dei suoi bambini. Nonostante le prove di manifesta innocenza non siano state mai acquisite dai giudici, in barba al codice penale, la donna riesce ad ottenere l’assoluzione dal reato contestato, con formula piena.
Un processo che non finisce con un’assoluzione, perchè quello è solo l’inizio di una serie di prepotenze che questa donna è costretta a subire, debole del fatto che le persone potenti e influenti non sono certo i suoi bambini, ma la sua famiglia d’origine, sangue del suo sangue, che l’ha messa più volte in ginocchio sperando in una resa che non c’è mai stata. La ragazza vede che ogni volta sia gli avvocati sia i giudici, cercavano di smorzare le cose, togliendo gravità laddove c’era, e mettendone dove non esisteva.
Insomma, forte di queste esperienze in tribunali, arriva a un punto in cui manda un appello su internet, che in sostanza diceva “vi prego, qualcuno venga a vedere cosa accade in aula, che qui fanno sempre come vogliono e tenteranno di mettermi i bastoni tra le ruote ancora una volta”. Questo appello lo leggono svariate persone, e tra queste svariate persone ci siamo noi, di censurati.it, e una ragazza di Brindisi.
Il processo si svolgeva in provincia di Pescara, davanti a un giudice di pace. E per la prima volta, la vittima di questa potente famiglia, non si era sentita sola. Aveva testimoni in aula. Una da Roma e una da Brindisi.
Non c’è cosa peggiore di lottare per un’ingiustizia urlando al vento verità che poi nessuno può sentire. In quell’occasione finalmente poteva esserci il riscatto di sempre.
Ma fu solo una illusione, perchè con una scusa e un pretesto, i testimoni vengono allontanati dall’aula e il processo continua a porte chiuse. Il motivo ufficiale: tentavano di fare riprese con una telecamera non autorizzate. Il motivo reale: quel processo in sordina è nato e in sordina doveva morire, cercando di far conciliare le parti in causa (anche se una non vuole) a dibattimento iniziato. Il fatto di procedere a porte chiuse ci parse talmente ingiusto che chiamai i carabinieri… (in fondo mi ero fatta quattro ore di treno partendo all’alba, per sentire quel processo). I carabinieri sembravano anche ascoltarmi, presero le mie dichiarazioni, firmai i verbali, commentai gli stessi verbali.
Ma non sapevo che i carabinieri furono chiamati anche dal VPO (avvocato con mansioni di Pubblico Ministero) per allontanarci. Fatto sta che dopo sei mesi da quell’udienza, ci siamo visti recapitare un avviso di garanzia con rinvio a giudizio per interruzione di pubblico servizio. Io, che il servizio da giornalista lo stavo facendo semplicemente prendendo appunti su un block notes (tanto da rinominare scherzosamente il reato “Taccuinaggio abusivo”) e me lo sono visto negare, perchè “ospite non gradita”.
Quindi per cinque anni, ascoltando una decina di testimoni circa, ho seguito questo processo sempre: ero malata e sono andata, avevo impegni di lavoro e li ho spostati, qualche lavoro da free lance è anche saltato, le prove in orchestra sono saltate sempre, ho preparato concorsi dicendo di avere pendenze penali, ho collaborato con le forze dell’ordine anche da IMPUTATA, e questo perchè? Perchè una telecamera SPENTA ha minato gli equilibri assonnati di una corte che voleva un po’ di tranquillità, non certo giustizia. Tanto è vero che quel processo finì con l’assoluzione della famiglia potente, mentre la figlia ribelle che per anni si è vista negare diritti per processi molto più pesanti, questa volta si è visto negare anche il diritto ad avere un processo pubblico.
I nostri avvocati che hanno preso a cuore il caso del “taccuinaggio abusivo” hanno trasformato un processo farsa in una sorta di rivendicazione dei diritti negati: dal diritto di assistere a un’udienza pubblica al diritto di svolgere un lavoro giornalistico costituzionalmente riconosciuto, al diritto sacrosanto di tendere una mano e stare umanamente vicino a chi vive una situazione di abusi e soprusi. Il tutto facendo notare, durante l’arringa, che quello a cui assistevamo il giorno in cui ci allontanarono dall’aula, non era una semplice lite tra parenti.
Era una lite di una famiglia potente che doveva “domare” una figlia ribelle. Ci hanno provato con l’accusa di lesioni aggravate e non ci sono riusciti. Ci hanno provato a isolarla durante quell’udienza, ma per una volta la ragazza non si era trovata sola.
Il costo di una mano tesa sono stati cinque interminabili anni per un processo da cui siamo stati assolti perchè il fatto non sussiste. Il PM aveva chiesto tre mesi di reclusione per noi. La vittoria più bella non è stata tanto l’assoluzione, ma il PM che a testa bassa è uscita senza guardarci pur passandoci davanti.
Giustizia è fatta? Parzialmente. Giustizia sarebbe fatta se chi ha pensato di far pagare CON LE TASSE DI TUTTI un processo penale che ha dei costi non solo di denaro, ma di rallentamento della giustizia di tutti, pagasse di tasca sua questa prova di MUSCOLI del tipo “io sono la toga e voi non siete nessuno”, citando l’attualissimo Marchese del Grillo.
2 thoughts on “Il “Taccuinaggio abusivo” non è reato. Storia di una giornalista e di un processo durato cinque anni”
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Spero abbia provato un po di vergogna il PM – se non addirittura schifo x quanto fatto passare a degki innocenti e lei/lui non poteva non saperlo.
Non sai quanto comprendo l’odissea che hai vissuto…anni infinitamente lunghi, estenuanti, logoranti…ingiuste accuse che cambiano tutta la tua vita, sentirsi criminali per aver denunciato la verità…sono felice del buon esito della tua vicenda che hai superato e vinto, ora sei più forte….Brava!