Fin dal primo momento, l’assessore alla Salute, Massimo Russo, ha sostenuto che l’episodio di Messina “non è un caso di malasanità”.
Oggi, forse, ci spiegherà perché.
Nessuno, infatti, ha capito i motivi per i quali egli, di fronte all’indignazione generale e accanto al ministro Fazio precipitatosi a Messina, non abbia voluto qualificarli come casi di malasanità.
I fatti sono arcinoti: una partoriente, già in sala parto, assiste, sgomenta, alla rissa furente fra i due medici che dovevano aiutarla a partorire; un’altra donna, giorni prima, aveva abortito, da sola, nel WC dello stesso reparto; mentre una sessantenne è morta in circostanze tutte da chiarire.
A ciò bisogna aggiungere le “scoperte” fatte, ieri, dall’inchiesta del Nas: medicinali scaduti, rifiuti speciali abbandonati e non smaltiti; persino la carogna impolverata di un pipistrello in terapia intensiva.
Se questa non è malasanità, cos’altro dovrebbe accadere per ritenerla tale?
Invece, le prime reazioni hanno teso a minimizzare, a ridurre l’episodio a mera devianza comportamentale individuale.
Forse, l’assessore avrà un metro speciale per valutare l’entità e la qualità dei danni e quindi per qualificarne la gravità.
A tutti, in Sicilia e in Italia, quella rissa e gli altri episodi citati sono apparsi casi gravissimi, inammissibili di cattiva sanità.
Una sottovalutazione, dunque, inopportuna che, per altro, non tiene conto delle dichiarazioni allarmanti rese, a più riprese, dal manager Giuseppe Pecoraro sulla funzionalità e sugli interessi opachi e trasversali che gravano sulla gestione del nosocomio e dei singoli reparti.
Insomma, non c’era davvero bisogno che scoppiasse la clamorosa rissa per avviare severi e penetranti controlli. Invece, nulla fino all’altro ieri.
Riformare la sanità siciliana, la più costosa e inefficiente fra le regioni italiane, è certamente un compito arduo e di non poco momento.
E’ illusorio pensare che per farlo bastino alcuni tagli poco mirati, ma necessari per acquisire nuovi mutui dallo Stato.
Per cambiare sul serio, bisogna cominciare a riprogrammare, in armonia col territorio, a tagliare tutte le incrostazioni, gli interessi illeciti e affaristici che ruotano intorno alla sanità. Tagliare, innovare e promuovere dirigenti competenti e rigorosi e non lottizzare come si continua a fare.
Forse, minimizzando, l’assessore voleva preservare l’immagine di una sanità siciliana di colpo riformata, vanto e fiore all’occhiello del governo Lombardo, secondo la migliore tradizione dei gruppi dominanti siciliani che più si curano dell’immagine che della realtà effettiva.
Ma la gente, i pazienti soprattutto, sanno benissimo come stanno le cose, come e perché (non) funzionano gran parte delle strutture e dei servizi sanitari pubblici.
Molti utenti continuano a emigrare al nord o si ricoverano in cliniche private o devono sborsare fior di quattrini per ottenere un’assistenza decente anche nell’ambito del servizio pubblico.
E chi non ha queste possibilità?
Certo, il problema è antico e i guasti provocati sono troppo grandi. Perciò, nessuno vuole attribuire tutta la responsabilità all’attuale assessore. Tuttavia, egli non ci può propinare analisi riduttive, autoreferenziali, quasi che in Sicilia avessimo un servizio sanitario all’avanguardia dove, casualmente, si sono introdotti medici che si azzuffano in sala operatoria e/o donne che abortiscono, da sole, nel WC del reparto ostetricia.
Per altro, la Regione, che nel settore ha competenza primaria, quasi esclusiva, mostrandosi esitante in ordine all’accertamento delle responsabilità, rischia di farsi scavalcare dall’iniziativa del ministro e degli organi parlamentari nazionali.
La sbandierata autonomia non vale solo per incassare o per nominare, a piacimento, dirigenti e consulenti, ma anche quando si debbono assumere chiare responsabilità sanzionatorie.
Ma se l’assessore minimizza i cittadini s’indignano ancora di più. E a ragione.
Agostino Spataro