Il presidente turco Erdogan ha perso la maggioranza. Recep Tayyip Erdogan dovrà finalmente imparare il significato del termine “dialogo”. Non potrà fare altrimenti dopo 14 anni di “regno” sulla Turchia. Ha fatto di tutto per recuperare o tenersi stretto l’elettorato. Ha fatto campagna, cosa non proprio da lui, facendosi vedere ovunque. Nulla da fare. Non avrà quello che voleva: la maggioranza con i due terzi del Parlamento, ossia 400 seggi. Ne aveva bisogno per modificare la Costituzione per passare dal modello parlamentare a quello presidenziale. Non che si notasse molto che Erdogan avesse un ruolo simbolico ma scriverlo nero su bianco gli avrebbe dato maggior peso con una vera e propria “presidenzializzazione” dello Stato. La Turchia può esultare di questi risultati promettenti. L’Europa anche. Non dimentichiamo che la Turchia conta 75 milioni di abitanti ed è lo snodo con il Medio Oriente attualmente infuocato. L’AKP, il partito di Erdogan, tracolla, colpa anche della situazione economica affliggente dopo un periodo di prosperità. L’iperpresidenzialismo megalomane di Erdogan, la corruzione, la crisi mediorientale, il disamore da parte degli investitori che hanno rallentato gli insediamenti nel paese al quale si può aggiungere la distribuzione dei redditi più bassa in Europa sono solo i fattori più visibili dello squilibrio turco.
Erdogan non è caduto ma non potrà più governare da solo e dovrà fare i conti anche con il partito dei curdi, HDP – Partito democratico del popolo – guidato dal giovane Selahattin Demirtas che non si rivolge soltanto alla comunità curda ma a tutte le minoranze presenti in Turchia.
Solo la Borsa non ha apprezzato temendo turbolenze politiche, ma si presume che saggiamente si riassesterà.
Luisa Pace