La crisi in Ucraina porta di nuovo alla ribalta il concetto di guerra informativa o maskirovka (inganno militare), come la chiamano i russi. Sì, perchè la possibilità di gestire, diffondere e quindi manipolare l’informazione consente netti vantaggi sull’avversario. Un avversario confuso dalle notizie che riceve, un avversario che non sa più chi è il suo nemico, che non sa da cosa difendersi né dove colpire. Un avversario che non sa più nemmeno come convincere il suo alleato a rimanere tale: già, perchè la maskirovka confonde anche gli alleati, mina la conoscenza e l’evidenza dei fatti, insinua il dubbio. E per creare l’inganno militare maskirovka non si limita all’ambito militare, ma invade anche l’economia, la politica, la vita sociale di un Paese, in tempo di guerra e in tempo di pace. Lo scopo è destabilizzare la sicurezza nazionale e fuorviare l’opinione pubblica (possibilmente quella mondiale). Quindi questa guerra dell’informazione coinvolge tutti, volenti o nolenti, come vittime o come combattenti.
Janjevo, la valle dell’esperanto kosovaro.
L’eccezione in Kosovo esiste e si chiama Janjevo. È un paesino situato in una vallata a 15 chilometri da Pristina, nella municipalità di Lipjan. Nonostante la povertà e le case distrutte dal tempo, qui si respira un’aria serena. Le strade sono strette e sconnesse, ma sono piene di bambini che corrono e giocano. Questi bambini sono tutti diversi, balza all’occhio: alcuni chiarissimi e biondi, altri con gli occhi neri e con la pelle scura come quella degli egiziani, alcune ragazzine indossano il velo. A Janjevo vivono una maggioranza di croati e poi albanesi, turchi, RAE, bosniaci, gorani e serbi: molti sono ex rifugiati perchè qui la guerra non è mai arrivata. Questo è l’unico posto dove le sei stelle (le sei etnie) della bandiera kosovara sembrano riempirsi del loro senso.
Kosovo: prigionieri del dialogo
Dopo 15 anni, in Italia si parla ancora di Kosovo. Il 15 aprile il ministro degli Affari Esteri Federica Mogherini incontra alla Farnesina il suo omologo kosovaro Honver Hoxhaj per firmare gli accordi bilaterali in materia di riammissione e per confermare il sostegno italiano a una prospettiva europea di Pristina. Il nostro ministro manifesta poi il suo apprezzamento per i passi avanti nel dialogo tra la dirigenza kosovara e Belgrado. Sì, perchè il dialogo è indispensabile per costruire un Kosovo unito, è indispensabile perchè non si ripetano gli orrori che con diversa intensità hanno afflitto nell’ultimo quarto di secolo questa terra. Dialogo istituzionale e dialogo sociale, un lavoro difficile, che richiede dedizione e caparbietà. Lodare i passi avanti che fanno le parti in causa non è sbagliato, ma sminuire o tacere il contributo della comunità internazionale sarebbe un gravissimo errore. Perchè noi di energie e di risorse in Kosovo negli ultimi 15 anni ce ne abbiamo messe davvero tante e forse riconoscere il nostro impegno nell’avvio alla normalizzazione di quest’area è il minimo che possiamo fare per non far sembrare la nostra presenza lì uno spreco di tempo e di energie.
Police building.
A spasso con il P.I.
Sette giorni in Kosovo. Sono pochi, è vero. Il tempo in questi casi è sempre poco. Sette giorni embedded in Kosovo, con militari italiani e due alti ufficiali dello Stato Maggiore della Difesa che “accompagnano” me e gli altri colleghi del Master di Giornalismo Internazionale dell’International Global Studies, sono ancora meno. Non può non pensarla così chi, come me, è alla ricerca della verità (quella con la v minuscola). Perché chi ama farsi guidare dal suo istinto, muoversi liberamente, interagire come e con chi vuole, non può non soffrire all’idea di dover seguire un itinerario prestabilito (da altri), dover rispettare degli orari (sempre imposti da altri), incontrare persone che non sceglie e sottostare a regole (qualunque, figuriamoci quelle delle Forze Armate). Poi il Capitano Gianluca Greco, P.I.(addetto Pubblica Informazione) nonché nostro Virgilio, annuncia che trascorreremo il pomeriggio visitando due radio, una serba l’altra kosovaro albanese; così chi vuole vivere e raccontare storie forti, comincia a sperare negli altri sei giorni che rimangono a disposizione. Quando poi, Greco ci informa che i soldati italiani hanno contribuito alla sicurezza e allo sviluppo (anche in termini economici) di entrambe le emittenti, allora sì che si potrebbe pensare (non è il mio caso, ma sarebbe lecito) che sarebbe preferibile rimanere in base e intervistare direttamente i soldati che sono qui.
Di paramilitari, di sotnye, di diaspore, di solidarietà, di armi. E poi di oggi.
Maidan è una piazza “vestita a guerra”, una guerra un po’ scoordinata, ma guerra. Decine e decine di tende difese dalle barricate, bandiere, blindati, cucine da rancio, mezzi militari di altre epoche, cataste di legna, infermerie improvvisate e poi centinaia, forse migliaia di persone in mimetica e giubbotto antiproiettile. Alcuni sono armati di manganelli e coltelli, altri hanno alla cintura maschere antigas, altri non hanno nessuno strumento per difendersi. L’atmosfera è vigile e impegnata, ma non è tesa. Maidan è una piazza che ha fatto la guerra, che si tiene pronta a combattere di nuovo da un momento all’altro e che anzi è certa che dovrà tornare a farlo, forse contro un nuovo despota, più probabilmente contro Putin (si può dire che nelle ultime ore, in questo senso, è tornata a farlo nell’est del Paese). “Fino alla morte”, ribadiscono tutti i paramilitari. Sono seri ma accoglienti. Hanno voglia di parlare e di sorridere, è stato un inverno freddo e duro, il loro. Ne approfittiamo e ci facciamo raccontare di come i primi di dicembre la gente, che man mano si stabiliva sulla piazza, si organizzava in sotnye.
Lustrazia: la vera rivoluzione ucraina è adesso.
L’Ucraina è troppo impegnata a farla la rivoluzione, per raccontarla. E la rivoluzione, quella vera, è adesso, e si chiama “Lustrazia“, un meccanismo complesso attraverso cui il popolo prende per mano le istituzioni, le affianca -senza sostituirle- per aiutarle a liberarsi da corruzione e inefficienze. Ma nessuno (almeno che io sappia) parla di come sta avvenendo questo cambiamento, forse perché è così semplice da sembrare complicato, forse perché fa paura, forse perché può funzionare.