“Brusca e dintorni…”
Io dovevo averla già vissuta quella strana situazione… Sì… era qualcosa già accaduta in passato e che adesso riemergeva alla memoria, scongelata dopo l’ibernazione del tempo.
Magari l’avevo vissuta in un’altra vita, forse sotto le insegne di una legione romana che inseguiva le retroguardie nemiche lungo l’argine di un fiume in piena o, ancora, quando ero stato un guerriero di un’armata giapponese e avevo strappato l’ultimo vessillo di un feroce avversario a lungo braccato tra le paludi tropicali.
Avevo sentito parlare di questo strano sentimento ma non pensavo potesse esistere…
So per certo che ne parlava Erodoto nelle Storie, nel tentativo di dare un senso ed una spiegazione al dolore per un nemico ucciso e di scoprire un barlume di umana pietà laddove pietà non può esistere.
Proverò a raccontare quello che avvenne…
Era il 29 settembre 1987.
In una strada periferica di Bagheria veniva trucidato uno degli uomini più pericolosi di Cosa Nostra. Si chiamava Mario Prestifilippo. Era un killer. Aveva ucciso decine di uomini sempre eccellendo nel difficile compito di dare la morte.
Era temuto. Temutissimo anche dai capi che, intuendo il pericolo del suo strapotere, avevano deciso la sua eliminazione affidando ad altri eccellenti tiratori l’alto incarico.
Mario aveva previsto tutto questo.
Era nato in “Cosa Nostra” e sapeva come sarebbe finita.
La mafia era stata la sua casa, la sua donna, il suo pane.
La mafia era tutto: il suo passato e, soprattutto, l’assai prossimo futuro.
Mario non si faceva illusioni. Era un guerriero e, come guerriero, sapeva che l’unica possibilità che la sorte gli assegnava era quella di combattere.
Senza paura.
Una regola della guerra diceva: difenditi fino a quando non puoi affrontare il nemico, affrontalo quando lo avrai davanti.
Avrebbe combattuto fino alla fine.
Lo sapevano anche i suoi assassini che, per questo motivo, non lasciarono nulla al caso: armi perfette, tanti uomini e una trappola micidiale.
Mario non dormiva mai due notti di seguito nello stesso letto.
Si nascondeva tra i mille anfratti di una terra che conosceva da sempre.
Indossava il casco e via, con la sua moto veloce, attraversava le contrade più aperte, in cui gli avversari avrebbero dovuto mostrarsi con un certo anticipo.
Il tempo che gli sarebbe bastato per mettere mano ad una delle tre pistole che teneva alla caviglia, alla cintura e sotto l’ascella sinistra.
Se quello era il terreno di caccia – giurava a se stesso – non sarebbe stato facile preda.
Ma la storia era già scritta e Mario cadde tra decine di colpi sparati con la rabbia e la determinazione di chi teme anche solo l’ultimo rantolo.
Il colpo di grazia, venne esploso da un vecchio compagno di “lavoro”.
Lo annientò con freddezza: “Nulla di personale. Addio, Mario”.
Con gli occhi ancora aperti e lacerato da profonde ferite, il corpo di Mario Prestifilippo giunse alla morgue dell’Istituto di Medicina Legale.
Si imponeva il rito del riconoscimento.
Due donne, vestite di nero, si avvicinarono al cadavere.
Qualcuno sussurrò che, finalmente, lacrimavano gli occhi giusti.
Era un modo per dire che tanti altri occhi Mario aveva fatto piangere, crudelmente.
Una delle donne – era la madre – intinse un suo fazzoletto bianco nel sangue delle ferite devastate dai proiettili e se ne bagnò il viso.
Accompagnò il gesto sacrificale con alte grida: “U sangu… u sangu du me sangu…”.
Era il sangue del figlio che si riuniva a quello della madre.
Ebbi pietà.
Da allora ho visto tanta gente morire assassinata dal mostro infernale chiamato mafia.
Ma, ogni volta che urla strazianti accompagnano il dolore di chi rimane, mi ripropongo una domanda che forse non ha risposta:
“E’ giusto avere pietà per il sangue del nemico?”.
Lorenzo Matassa
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