Giornali, televisioni, siti internet ripetono la notizia: Massimo Ciancimino, del fu Vito, il “supertestimone” del “superprocesso” per la “supertrattativa” tra Stato e mafia, l’uomo cui la magistratura palermitana, ha dato credito come all’oracolo rivelatore della “verità” su tutti i misteri veri, presunti, ipotetici della storia dell’ultimo secolo, l’uomo simbolo del processo più lungo e più sgangherato della storia d’Italia (e non solo) che vede imputati i poteri dello Stato rei di aver tentato di subire i sanguinosi ricatti della mafia, dovrà prendere alloggio in carcere. La Cassazione ha confermato una condanna per detenzione di alcuni chilogrammi di candelotti di tritolo nascosti nel giardino della sua casa (che egli sosteneva essergli stati rimessi quali minaccia per le sue “rivelazioni”, da lui nascosti per “non impressionare” i parenti).
Condanna che va ad aggiungersi a quella per riciclaggio condizionalmente condonata. Ed intanto incombono sull’”oracolo” altri anni di reclusione, per una condanna per calunnia a carico dell’ex capo della Polizia, Di Gennaro. Altra calunnia è contestata a Ciancimino perché commessa proprio nel corso del processo “trattativa”.
Ciancimino, non è un pentito qualsiasi. Benché personaggio marginale nel contesto mafioso (pare che il Padre non tentasse nemmeno di manifestare un po’ di stima nei suoi confronti) non solo la sua parola è stata ritenuta dagli oltranzisti della Procura di Palermo più veritiera di quella di Poliziotti, Carabinieri, Funzionari, Ufficiali dell’Arma, ma è stato considerato da quella singolare accozzaglia (come direbbe Renzi) di confratelli di congreghe antimafia, di giornalisti, di guru in comunicazione con l’”aldilà”, come un esempio, un emblema, un corifeo della “legalità”.
L’”Ingegnere Fratello” (Borsellino) di professione rappresentante delle vittime della mafia, ne fa l’apologia e cinge costui di un abbraccio simbolico di quanti voltano le spalle alle corrotte Autorità dello Stato (testuale) alzando l’agenda rossa, simbolo della diffidenza verso il potere costituito.
Ma, a parte questi dati rituali e bolsamente retorici del ruolo conferito a questa grottesca mezza cartuccia del “pentimento”, è certo che una certa parte della Magistratura palermitana non ha esitato a passar sopra la balordaggine della sua figura, dei suoi racconti, delle sue “ricostruzioni della storia” per impiantare uno dei più manifesti e grotteschi processi con i quali la Magistratura persegue un suo disegno di sopraffazione teorica e pratica di ogni altro potere dello Stato ed, al contempo, tende a coprire e ad addebitare ad altri e ad altro le incongruenze e gli insuccessi veri o presunti dell’azione antimafia.
Massimo Ciancimino può ben aspirare ad esser simbolo dei “pentiti” e del vergognoso e spregiudicato modo di utilizzarli, si direbbe più a fini di potere che di ricerca della verità.
Analizzando la sua vicenda, le sue “rivelazioni”, il trattamento che gli è stato riservato (vedremo ora come si procederà, intanto, in sede di esecuzione della sentenza irrevocabile: quei titoli secondo cui egli “rischia” (!?!) il carcere sono allarmanti) si ritrovano tutti gli elementi che hanno caratterizzato e caratterizzano il peggior uso dei pentiti, non solo a Palermo e in Sicilia ma in tutto il Paese.
Intanto un’altra vicenda di sentenza passata in giudicato, di affidamento in prova etc. etc. è in corso in Sicilia. Ad Agrigento un personaggio che tutto può essere considerato fuorché un pentito (neanche nell’accezione “generosa” oggi corrente) ma che per anni ed anni ha svolto nella Città dei Templi un ruolo di “collaboratore” o “collaborazionista”, diciamo così, della giustizia, assumendo (con pieno concorso di responsabilità di chi avrebbe dovuto impedire strumentalizzazioni ed abusi) il tono e le funzioni di “promotore di giustizia” (tanto per usare un termine ecclesiastico e non incorrere in possibili equivoci). Teneva così sotto scacco l’intera Città, appiccicando imputazioni fantasiose quanto infamanti a molti funzionari, imprenditori, cittadini ed, al contempo alla stessa Giustizia. Cambiati i magistrati, fattesi ferme e serrate le reazioni al personaggio sempre più incline a rivelare lati grotteschi, assurdi e comici della sua “funzione”, entrato in “collisione” con la maggior parte dei nuovi giudici e P.M. ha cumulato sentenze di condanna, specie per diffamazione… E, poi calunnie, estorsione etc. Ma ad Agrigento è stato possibile vedere ciò che in ogni parte d’Italia nessuno osa neppure immaginare: manifesti di dileggio e di minaccia a magistrati, quelli attuali. Che, però sembra non possano fare a meno di usare particolare prudenza (quanto meno) nei confronti di chi, magari, potrebbe avere nei suoi armadi scheletri lasciati da colleghi che li hanno preceduti. Solo così si spiega come un personaggio con a carico una sessantina di processi penali, di condanne non ancora definitive ma, altre, invece divenute irrevocabili, riesca a cavarsela rimanendo a piede libero e riuscendo pure a continuare ad indossare la toga (qualcuno, con riferimento agli avvocati, ha usato il detto romanesco: “tra cani nun se mozzicheno”), ma a tutto dovrebbe esserci un limite.
Quanti Ciancimino, quanti Arnone ci sono in giro per l’Italia? Quando imperversava “Mani Pulite” assurse a fama di grande avvocato un tizio specializzato, dati, i buoni rapporti con Di Pietro e compagnia, nel presentare al P.M. gli indagati arrestati, far fare loro i nomi degli “altri” e guadagnarsi così quanto meno gli arresti domiciliari. E, per lui, una ricca parcella.
Quando la giustizia tende a prodursi in “crociate” ed a trasformarsi in partito, in fazione, il fenomeno dei normali leccapiedi si trasforma in un “collaborazionismo”, in una disponibilità che sopravanza lo stesso potere di chi se ne avvale. Questa è la storia, non solo quella recente, del “pentitismo”.
Sarebbe ora di rendersene conto e di chiederne il conto.
Mauro Mellini