Non ne ho parlato mai con nessuno. Non è nemmeno un ricordo, è un fatto lontano, dove non c’è che la notte, il sonno, e il cammino. Qualche sosta, dell’acqua. Il gruppo si spostava lentamente, senza un vero capo. Si abbandonava la città, era breve allora il tragitto dal centro al confine. La città si perdeva ed iniziava una campagna sommersa nella notte, il cielo si stendeva senza luci. Il freddo era intenso. Noi eravamo ricchi, usciti da case modeste ma fornite del necessario.
Ci radunavamo e cominciavamo a camminare verso il santuario. Perché dopo la casa, e il letto, la coperta, il tavolo, il piatto e il cibo, dopo tutto questo, c’era la pena dell’esistenza.
Ero il più giovane, ostaggio di donne di famiglia che mi ricordavano la dottrina. In testa avevo una sciarpa, e il cappotto mi riparava, e teneva nascosto il mio cuore duro, sanguinario.
Andava la processione, in testa la donna con la parrucca, e a seguire altre anime chine, una adolescente silenziosa, e il mormorio delle preghiere. In ultimo arrivavo io, che non credevo a niente e in testa non avevo che il coro acuto del mio scontento. Al centro del mio petto c’era l’orgoglio, così mi rimproveravano, la superbia, l’indifferenza, la inutile speranza del piacere.
Così, in quel mese di rami secchi, e di cieli minacciosi, infilavano tutti il cappotto pesante e avanzavano in fila, sotto il cielo, lungo la campagna, all’incrocio di vie penitenti, per raggiungere il santuario, facendo mormorazione incomprensibile, mentre l’adolescente davanti a me diveniva sempre più adulta e la rivestivo di ogni peggiore fantasia. Ogni volta, come se le vecchie sentissero i rintocchi delle mie vene, le voci si alzavano di tono, divenivano le preghiere più pressanti, furenti, accese. Di solito alzavo lo sguardo, per sfida, e il cielo era nero, non avresti intravisto una stella. Fino a dove la strada conservava dei lampioni, si illuminavano a tratti mani giunte e gonfie, poco ingioiellate, qualche bagliore veniva dall’oro delle fedi. Non c’erano uomini, abbandonati alla loro perdizione nei letti caldi dell’inverno, nelle case stanche rassettate.
C’ero io, che ripetevo con le labbra dure della rivolta, le invocazioni, rispondevo al gesto dell’anima implorante, quanto piangente, quanto tediosa, con un amen imperioso, ma subito soffocato, stretto tra i denti che volevano mordere. Guardavo se nella notte ci fosse un varco, per fuggire. Temevo. Noi in fila, una decina di persone sole nella notte, oranti. Finalmente a capo della processione qualcuno accendeva una candela e la teneva di lato, e tutti seguivamo quella luce, che ondeggiava come la mia anima impaziente. Finchè quella volta, si alzò il vento, e la luce si spense. Smisero di pregare. Si fermarono, e la ragazza mi toccò la mano. I piedi tastarono il terreno e poi scelsero il percorso.
Il gruppo era fermo, e non cercava di accendere la candela. Nessuno parlava. Girandomi un attimo le vidi, sembravano la gobba nera di una collina, e ancora più distante, una luna in ombra, informe.
Quando lei mi spogliò, quando lei mi attrasse, quando lei mi sospirò vicino, pensai invano a quello che lasciavo, a quello che perdevo, al mio corpo che andava in pezzi, a me che morivo. Mi volsi ancora a cercare nella notte, e la fiamma infinitesima della candela di nuovo accesa, si muoveva, e le preghiere rinfrancate risalivano verso il santuario. Infine le donne cominciarono a cantare, più vicine alla loro speranza. Quando decisi di tornare indietro, c’era già un chiarore d’aurora.