La verità è che il cane voleva stare con me. C’era stato tutto un lungo periodo di pausa dal freddo, e il cane era sempre stato lì ad aspettarmi mentre mi preparavo per andare al fiume, avanti giorno, per stare solo e liberarmi del caldo appiccicoso della notte. Mi seguiva e per un tratto di strada dimenticavo di averlo alle calcagna. Una volta al fiume aspettavo prima di tuffarmi. Da poco era sfumata la notte. Il fiume ancora sognava, non mi andava di disturbarlo. Allora mi rivolgevo al cane. Dividevo con lui la colazione e poi mi stendevo sull’erba e respiravo l’odore verde della campagna. A casa avevo lasciato Nora, che ancora dormiva stesa di fianco sul letto, che per fortuna non ci pensava per niente a seguirmi a quell’ora del mattino. Forse mi avrebbe raggiunto più tardi, ma non succedeva mai, e così il cane ed io avevamo tutto il tempo per pensare e parlare tra di noi. Ci concedevamo un discreto divertimento, mai chiassosi, mai inutili tuffi rumorosi, solo lente nuotate, e pause al sole finchè si sopportava, poi l’ombra, il silenzio. Arrivava infine qualche famiglia di rompiscatole e allora per noi giungeva il momento di fare ritorno.
Di solito Nora aveva preparato qualcosa e mangiavamo sulla veranda, lasciava che il cane stesse lì a guardarci, ad aspettare che lei radunasse gli avanzi e glieli servisse su un piatto di carta.
Poi andavo a lavorare, ad uno dei cantieri lungo il fiume, dove si costruivano le barche. Il cane mi guardava andar via, a volte lo controllavo dallo specchietto retrovisore, e lui era lì, con il pelo arruffato sulla fronte e gli occhi attenti. Se, prima di girare oltre la curva, rialzavo lo sguardo, lui non c’era più.
Non mi preoccupavo di niente per tutto il giorno, al cantiere c’era da lavorare e da tenere a bada i prepotenti, che sono sempre dappertutto. Non posso vantarmi apertamente, ma sulla cantieristica bisogna lasciarmi strada, e questo non va giù a parecchia gente qui sul fiume. Avevamo delle consegne da concludere, e siccome l’estate aveva anticipato di alcune settimane, eravamo tutti nervosi e pressati dalle richieste. Lavoravamo ad un progetto, una chiatta in disuso, che volevamo trasformare in barca fluviale. Era stata una mia idea, avevo proposto al padrone di metterci a sistemarla per la navigazione turistica. Gli era così piaciuta questa trovata che aveva fatto arrivare dei nuovi macchinari, e qualcuno aveva masticato amaro. Il suo socio, per esempio.
Finalmente arrivava la sera, preannunciata dal solito cambio di luce, che entrava dalle porte dei capannoni fluida e dorata, e in qualche modo ci raddolciva. Ognuno pensava di nuovo di avere una famiglia e una casa. Per cui l’ultima ora trascorreva in maniera abbastanza distesa, ci passavamo gli attrezzi senza il chiaro desiderio di suonarceli in testa a vicenda.
Rimanevo anche quando gli altri erano già andati via, e ad una certa ora, quando il fiume cominciava a diventare nero, sentivo il cane abbaiare fuori del capannone. Allora tornavamo a casa da Nora che stava seduta in veranda, a fumarsi una sigaretta. Il cane non aveva un nome. Era spuntato un bel giorno nel garage sul retro, piuttosto spaesato e malinconico. Aveva cominciato a seguirmi con una certa riserva, a parecchi passi di distanza, pronto a darsela a gambe non appena avessi dato segni di follia.
Nora non lo voleva in casa. Lo guardava senza espressione, rifletteva su di lui ma non diceva niente.
Nora ed io non avevamo figli e anche se eravamo ancora giovani, sapevamo dentro di noi che non ne avremmo avuti. Ci eravamo conosciuti ad una di queste feste che si tengono nei nostri paesi senza fantasia e senza gusto. Il cielo è sempre pallido e color del fiume, e gli occhi di Nora avevano lo stesso riflesso tenue, la stessa sfumatura di bigio intorno all’iride. Aveva già un ragazzo che ballava prevalentemente con tutte le ragazze briose del luogo mentre lei rimaneva sulla staccionata a bersi una birra e fumare una sigaretta. Sembrava quieta, stanca, il ritratto della tranquilla solitudine. Mi ero un po’ stancato di girare a vuoto, di ragazze interessate magari più alla mia moto che a tutto il resto, o ad alcune esclusive parti della mia carrozzeria personale. Vivevo ancora con mio padre e non andava così male, zitto lui, zitto io. Forse il silenzio di Nora che agli altri appariva strano, per me non era una esperienza nuova. Stavamo abbastanza bene insieme, lo sapevo già mentre ballavamo e lei non si sforzava di ridere o di essere brillante, semplicemente posava le mani sulle mie spalle e i capelli mi sfioravano la guancia ed ero sereno.
Quando mio padre decise di lasciare il paese per tornarsene nel sua zona di origine, basta con il fiume, non mi fa bene sai, troppa umidità, non ne voglio più sapere, e la casa divenne troppo grande, Nora ed io ci sposammo. Forse ci sono ragazze migliori di lei, più sveglie e in gamba, ma non credo che mi sarebbe interessato andarmele a cercare.
Non so perché ripenso a questo, mentre cammino accanto al cane e la linea dell’orizzonte è rischiarata a malapena dalla luna nascente, e sento che qualcosa sta cambiando e non voglio, sto bene così. Allora mi concentro sul mio lavoro, immagino come sarà la chiatta, e quanto ne ricaveremo, e che impulso sarà per il paese. E mentre continuo a camminare non mi accorgo che il cane è rimasto indietro e ringhia, per la miseria, ringhia. E infatti dal buio, come dalla parte nera della luna, spunta qualcuno che mi colpisce, mi ammolla dei calci, e mentre le costole si rompono rivedo il viso di Nora e ci leggo qualcosa che ho ignorato negli ultimi mesi, e penso che sto per morire.
Era dunque questo, che mi era sfuggito. Un’ombra. Mai stato bravo a decifrare le ombre, ma ora che trasportavano me e le mie ossa rotte da qualche parte, mi accorsi che a morire non ero io, ma invece lo stava facendo Nora. C’erano delle scatole di medicine vicino all’acquaio, accanto alle sigarette, e la notte qualche volta non me la ritrovavo accanto, ma non mi andava di cercarla. La casa mi sembrava sempre uguale, ma Nora non era uguale, non so come dire. Se la smettessero di urlare e mi lasciassero decifrare in pace questa novità.
-Il cane- immagino di gridare ma invece non esce che un sussurro fiacco. Il cane, penso. Tornava da Nora tutte le volte che andavo via, lei a fare i piatti e lui appena fuori ad osservarla con il muso tra le zampe. Poi Nora usciva, indossava un golfino e andava a passeggiare verso il fiume, mi sembra di vederli. Ci sono tante cose che non so di lei, e che non avrò più tempo di sapere. Credono che mi lamenti per il dolore, ma non sento niente, davvero, solo una specie di annientamento, un odio per me e la vita che cambia e uno non ha avuto il tempo di capire il capitolo prima.
Con l’ultimo briciolo di coscienza annotai che le fiamme alte sopra il fiume altro non erano che la chiatta che andava in fumo, una pira che si consumava contro il blu della notte.
In breve, al mio risveglio, tutto era ormai pacifico e bianco, il sole entrava dalla finestra dell’ospedale, Nora era seduta ai piedi del letto, mi sembrava che ad occhi chiusi avessi appreso molte più cose di quando stavo ad occhi aperti. E quindi non chiesi quasi niente a Nora. Il mio sogno era sfumato, ma se ne troveranno di imprese da sognare, qualcuno mi aveva picchiato per avvertirmi, Nora era ancora lì, e il cane “Ti aspetta a casa” aveva sussurrato Nora.
-Dorme in casa?- avevo chiesto
-Si-
Cominciava l’inverno, il cane non sembrava giovanissimo, il prato e la rimessa gelavano di notte lì da noi, e anch’io, disse Nora, ma poi lasciò andare.
-Il magazzino è bruciato, non c’è più lavoro- disse ancora Nora
-Ne troverò dell’altro- Lei scuoteva la testa
-Forse non qui, hai dei nemici-
-Mi metterò in proprio, non vado via da qui- Lei sorrise. Aveva quella pelle bianca e gli occhi del colore delle foglie. Cercai la sua mano, ed era tanto davvero che non avevamo bisogno di gesti di conforto, o almeno, ne facevamo a meno.
-Tra due giorni ti dimettono.-
Silenzio.
-Dobbiamo trovare un nome al cane- Non mi andava di lasciarle la mano, sentivo però che stavo per riaddormentarmi, e allora chiusi gli occhi, e forse lei, prima di andare via, ci lasciò un bacio.
La cosa che più mi piacque di guardare, nei giorni successivi, fu la soddisfazione del cane vicino alla stufa. Quel sonno concentrato, solenne, quasi faticoso, di chi sta assaporando qualcosa alla quale aveva già rinunciato da tempo. Ero a casa. Ogni tanto venivano ad interrogarmi sul fatto, poi andavano via. Avevo il torace fasciato come un salame, e stavo mezzo steso sul divano, il cane era lì, Nora in cucina. Non avevo chiarito nulla con lei. Il fiume scorreva oltre gli alberi, ed era ormai inverno. Lontano, da qualche parte, sollevavano la carcassa annerita del mio sogno di gloria, mentre dalla riva mi arrivava il vociare degli uomini che l’avrebbero demolita. Eravamo soli. Nessuno era venuto a trovarci, solo il mio capo, per dirmi che per il momento non c’era lavoro, e lasciarmi poi una busta sul tavolo della cucina, dove Nora vi aveva depositato per lui una tazza di caffè e dei biscotti. Aveva gradito il caffè, e poi non riuscendo a sostenere l’imbarazzo se ne era andato via frettolosamente. Passavano i giorni verdi come il fiume. E poi gialli e poi bianchi. Nora cercava di risparmiare, ma i soldi che avevamo tenuto da parte stavano per finire. Mi allontanavo sempre più per cercare lavoro ed un giorno, di fronte all’ennesimo diniego me ne andai con il cane a sfogare la mia depressione sull’argine di ponente, dove l’acqua era più profonda e rugginosa e nemmeno i pescatori ci si azzardavano. E lì vidi il magazzino di legno di cui mi parlava mio padre, in un tempo che avevo veramente dimenticato. Non c’era quasi più il tetto, le assi erano marce, e il pavimento di cemento mangiato dal tempo e invaso dall’erba e dalla sabbia. Ma pensai che sarebbe stato un bel modo di rinascere, che il posto era giusto per me. A casa ne parlai con Nora, e lei mi disse che si poteva vendere quel suo terreno inservibile che le avevano lasciato i genitori adottivi. Lo faceva per noi, insistette. Dalla città alcuni amici di mio padre mandarono degli aiuti e in poco tempo il piccolo cantiere che nessuno voleva più fu ricostruito. Non dormivo perché pensavo che me lo avrebbero bruciato, o che nessuno mi avrebbe permesso più di vivere lì. Perfino il vecchio padrone non mi salutava. E la banca mi rifiutava qualsiasi prestito. Allora c’erano giorni in cui mi esaltavo e giorni in cui non era possibile parlarmi. Infine qualcuno si ricordò di me, vecchi armatori di fiume, e cominciarono le commissioni, qualcuno cercò lavoro e me lo associai, comprammo i macchinari, cominciammo a costruire, anzi il mio pallino era ricostruire. E al primo varo potevo ritenermi un uomo mediamente felice. Avevo una casa, un lavoro, una donna, un cane. Volevo portare Nora a cena fuori, quella sera, ma tornando a casa vidi la veranda illuminata da una candela, la tavola era ben apparecchiata e Nora stava seduta, in attesa.
-E’ andato tutto bene?- chiese
-Si,un varo perfetto.-
-Siediti è pronto-
Cenammo in quel calore, e non potevo pensare che quello che mi si era rivelato quella notte fosse ormai più vero. Era stata una mia impressione, Nora stava bene, altrimenti me ne avrebbe parlato.
Il giorno dopo uscii presto, era domenica, e andai per comprarle dei fiori. Non sembrava possibile che fossero passati pochi mesi, c’erano state in mezzo tante cose, ed era quasi tornata la primavera. Volevo per lei dei fiori bianchi, che le erano sempre piaciuti, volevo per lei qualcosa che somigliasse ad una stella, perché non sapevo dirglielo quanto l’amavo, e che in fondo per me lei era stata una gran cosa. Il cane mi aveva lasciato andare, lo avevo chiamato ma era rimasto accanto a Nora, non c’era stato verso di farlo smuovere. Faceva è vero ancora freddo, ma di solito gli piaceva farsi il giro del paese. Ormai aveva un nome e si era montato la testa. Tutti questi ragionamenti erano buoni per me, mi rideva di nuovo la vita, non ero in fondo un fallito, avevo delle idee, avevo un posto dove resuscitare barche che avrebbero percorso quel fiume strano, misterioso, che correva tra il verde e il deserto, tra le rocce e i campi fertili, che avrebbe trasportato gente e il carico dei loro pensieri.
Così cercai dei fiori bianchi in forma di stella e chiesi di avvolgere i gambi con un nastro bianco, perché volevo in fondo sposarla di nuovo, in una zona della nostra esistenza che a me sembrava quasi migliore, perché ora sapevo meglio chi eravamo, o cosa eravamo diventati, due che si amavano ancora. Mentre tornavo a casa studiavo una posa elegante per porgere i fiori a Nora, e immaginavo quanto si sarebbe divertita di vedermi imbarazzato. Scorreva il fiume lontano dalla strada, e il vento faceva tintinnare le prime foglie dei pioppi, così fermai la macchina e mi misi ad ascoltare. Era questo il miglior concerto che potesse esserci, nel punto in cui il fiume scavalcava e le onde di vento martellavano sugli alberi come bacchette su piatti d’oro. Persi del tempo, ma era perché volevo ripensare a dei ricordi che avevo lì, qualcosa come rivedere la propria vita, una specie di ipnosi momentanea, mi sembrava di percepire ogni singola goccia d’acqua del fiume e il verso del vento, le canne lungo gli argini, il sospiro di ogni foglia assieme al congiungersi lento delle nuvole. E quando cominciò a piovere finalmente mi riscossi, guardai l’orologio ed era ancora presto, prima del mezzogiorno, prima che il sole nascosto raggiungesse la sua vetta. Tornai a casa. Il cane non mi corse incontro, ed era tutto in silenzio, come se invece di tornare io stessi ancora per uscire a cercare dei fiori, solo perché non so parlare.
La porta era accostata e non riuscivo ad aprirla, e dietro sentivo il respiro affannato del cane, e un debole guaito, un lamento di pena. Girai intorno alla casa e ruppi un vetro. Entrarono prima i fiori e poi io, nella penombra cercai di decifrare lo spazio davanti alla porta e il corpo di Nora steso. Accanto, il cane. Mi inginocchiai e lei era triste, gli occhi socchiusi e la sua camicia sciolta, le braccia bianche, il collo fragile. Accostai l’orecchio al cuore. Non sembrava che ci fosse più nulla da sentire. C’ero io, il cane silenzioso e ai piedi di Nora, i fiori bianchi.
Sara Milla