Il ponte rappresentava la fine del viaggio.
Arianna si stiracchiava come poteva, si scioglieva i capelli cercando di riordinarli, buttava uno sguardo al piccolo bagaglio del weekend e lasciava che il verde del fiume e il grigio dell’asfalto le colmassero gli occhi, cancellandole la fatica delle ore immobili e le domande. Era quella in fondo l’immagine che le era entrata dentro la prima volta andando da lui. Scegliendolo. Scegliendo di lasciarselo entrare dentro.
Una porta. Il ponte era una porta.
La porta della sua città che lui le apriva per lasciarla entrare. Lei nella sua città, lui dentro di lei. Sul ponte si rompevano i confini, quelli dei loro mondi.
Servono a questo i ponti, aveva pensato, tante volte.
Ci andava in pullman.
I collegamenti ferroviari erano pessimi e le strade anche. Non che i pullman potessero ovviare a questo chiaramente, ma riducevano le spese, e questo non era poco, e le ansie anche, che lei matta come era magari si sarebbe messa in auto sola in piena notte (quanto le piaceva!) e in pieno inverno anche, senza avvisarlo neanche, senza avvisare nessuno, senza poterlo fare in caso di necessità, cosa non difficile con l’auto vecchia che si ritrovava.
Ci andava in pullman e non le piaceva.
Troppo tempo per pensare. Troppe voci per leggere o per dormire, perfino per sognare. Per non pensare. E orari, orari fissi, soprattutto. Che lei odiava.
Un amore a tempo.
Il tempo fisso dei percorsi, delle distanze, degli orari, delle regole, un fine settimana sì, uno no, uno da me, uno da te, regole necessarie, pare, così le aveva detto, o forse se lo erano detti, forse lo aveva detto lei, lo avevano deciso insieme, E’ necessario, si erano detti, lo era . Almeno fino a che.
Un altro tempo.
Fino a che era il tempo delle promesse, o del progetto, o del sogno.
Fino a che era Quando finirai gli studi, quando ingranerò con il lavoro, quando verrai qui, quando tra quanto tempo? Non è poi tanto, anche la distanza, il tempo passa, basta assecondarlo, passa.
E passava.
Anche veloce.
Quindici giorni, tredici anzi, che due erano insieme, passavano così veloci che quasi senza accorgersene a volte capitava che di un altro viaggio c’era ancora la stanchezza di quello precedente addosso, un’ombra cupa e greve inesorabile come la notte che divora lenta il cielo di certi giorni che non vorrebbero finire, non dovrebbero, a farsi spazio sotto pelle, sotto quella pelle – il suo confine – da togliersi ogni volta proprio lì, spogliarsene, sul ponte e ripiegarla (i gesti si ripetono) per poi riprenderla al ritorno, rindossarla, che a casa poi ti serve, lui non c’è, ritorni, sei di nuovo tu. Per troppo poco tempo per riviverti, per riconoscerti, per interrogarti anche, per stendertela addosso, stenderne le pieghe, e ricucirla spesso, rattopparla, che a furia di metterla e poi toglierla in tempi così brevi, in questi tempi troppo lunghi e lenti e fluidi per amare, quelli della distanza, troppo stretti e densi per viversi, condividersi, parteciparsi, quelli della presenza, si è sciupata, sfatta, sgualcita, rovinata e non la riconosci, non è più la tua, o non sei tu a indossarla, o a toglierla, non lo sai più chi sei.
Troppo veloce.
E troppo lento.
A tempo.
Arianna si chiedeva – quando pensava, che era questo poi che forse non aveva voglia di pensare – quando aveva cominciato a chiederselo, a domandarselo, a sentirlo in questo modo quel suo amore. A tempo.
Forse proprio sul ponte. Una delle tante volte tra qua e là.
Arianna dentro, Arianna fuori. In mezzo il fiume, che non è la pelle.
Geografie.
Pelle su pelle i confini si incontrano, si scontrano, si piegano, si deformano, la pelle si assottiglia, o si ispessisce invece, si innalzano pareti e muri invalicabili, da rispettare o abbandonare o da assediare e abbattere, resistono, poi crollano, se crollano, fino a confondersi, odori, umori, fluidi, uno di due, che è nuovo, che resta sui confini, sulla pelle, che è la stessa e un’altra nuova, una di due, due di una.
Nessun ponte sul fiume.
Nessuna ponte.
Nessun fiume.
Tra i confini di due corpi che si uniscono.
Tempi.
Punti, spazio, percorsi.
Da A a B.
In mezzo il fiume.
Dilatazione.
Le mani non si toccano, le mani non si sfiorano, le mani non si sentono.
Al di qua e al di là del fiume. A e B.
Confini.
Un ponte in mezzo a unirli non li unisce.
Punti, spazio, percorsi, tempi. Da A a B o da B ad A.
Al di qua o al di là. AB.
Il ponte è il tempo, lo spazio, il percorso a dividerli. L’illusione dell’unione. Del superamento del confine. Che invece resta lì, ogni volta che si torna indietro. A e B.
Facile, pensava Aurora. Troppo facile tornare indietro, come un gioco. Il ponte che ti inganna, che tradisce e mente, che confonde, perché se siamo insieme qua, ci siamo, se siamo insieme là, ci siamo, ma chi siamo se ogni volta che passiamo il ponte il nostro posto, il mio, il suo, è un altro ed è diverso e noi, noi io, lui, che è altro da noi due, io e lui, restiamo, ci lasciamo lì sul ponte ad aspettarci per tornare indietro?
Difficile anche, pensava. Troppo difficile e faticoso. Scomporsi e ricomporsi ogni volta sentirsi senza esserci, esserci senza sentirsi, a tempo. Nel tempo dei percorsi. Mai due, mai uno, mai uno in due, mai due in uno.
Dovrebbero crollare i ponti dopo che si passa, come i muri. Come le illusioni anche. Che crollano e che fanno male e poi ricostruirsi è faticoso e non è un gioco ma non torni indietro dopo e sei di nuovo tu.
O di qua o di là dal ponte. Che ci sia o no.
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Il ponte rappresentava la fine del viaggio. Anche l’inizio del viaggio di ritorno.
Arianna si rannicchiò nel suo sedile come aveva fatto già, tante volte. Non si legò i capelli quella volta. E lasciò che il verde del fiume e il grigio dell’asfalto le colmassero gli occhi un’altra volta, l’ultima, senza voltarsi indietro, non lo faceva mai. Era quella l’immagine che le era entrata dentro la prima volta andando via da lui, tornando a casa. L’unica che restava, mentre il suo odore, quello di lui, sul suo di lei, il loro odore, quello di tempi troppo brevi per diventare uno, uno di due, si copriva di altri odori lungo la strada, gli odori della gente, dello spazio, del percorso, del tempo. Si addormentò. Per pensare aveva avuto troppo tempo.