Stracci di uomini al sole e al vento

Sulla pelle nera il sale ha tinto arabeschi bianchi. Lo sguardo perso nell’orizzonte. In quel blu che sembra aver lasciato un riflesso nei loro grandi occhi dall’iride scura. Sotto un sole abbacinante, sullo scoglio rovente, spiccano come papaveri i rossi e i viola delle loro magliette. Alcuni indossano giubbotti neri. Abiti neri per uomini neri. Attorno è un via vai di magliette bianche (Guardia Costiera), di camicie azzurre e uomini in jeans (Forze dell’Ordine).

Fuggono da un inferno che ha lasciato profonde cicatrici. Cicatrici sulla pelle. Cicatrici  profonde nell’anima, di un dolore che forse non racconteranno mai. Sono uomini fortunati. Sono partiti uomini e tali sono arrivati. I meno fortunati, oggi sono solo croci con un numero e una data. Nient’altro.

Accoccolati l’uno accanto all’altro, osservano la bianca sagoma tagliare il blu dell’acqua. Dietro, la chiara scia dell’elica. Non capiscono. Stanchi, assetati, fuggiti da un paese in guerra (ci dicono che la maggior parte di loro sono eritrei), guardano quegli uomini che per primi li hanno soccorsi.

20 giugno 2012, le forze dell’ordine vengono avvisate dello sbarco intorno alle 8:30 – 9:00 del mattino.

51 migranti a bordo di un gommone hanno raggiunto l’isola di Lampedusa. Gli scogli vicino cala “Guitgia”.

A prestare i primi soccorsi, le forze dell’ordine e la guardia costiera. Purtroppo, a causa dell’attuale chiusura del centro di accoglienza, possono far ben poco per rifocillare i “naufraghi”.

Inizia l’attesa. L’unica soluzione possibile è quella di farli imbarcare sulla nave diretta a Porto Empedocle. Ma le direttive tardano ad arrivare. Sotto un sole cocente, cinquantuno uomini guardano il mare. Sembrano quasi tristi uccelli appollaiati sugli scogli. Una scena che gli uomini della guardia costiera e delle forze dell’ordine hanno già visto decine e decine di volte. Piccoli gesti di cortesia, poche parole, un sorriso. Non hanno null’altro da dare. Non c’è un centro d’accoglienza, non ci sono aiuti, né rappresentanti delle associazioni umanitarie. Il tempo passa. La nave della Siremar ha un orario da rispettare. È così, che vedono la bianca sagoma della nave passare dinanzi gli scogli. Gli uomini neri e la nave bianca. Improvviso, e ormai inatteso, arriva l’ordine: che vengano subito imbarcati sulla nave per Porto Empedocle!

La nave bianca rallenta, vira, ritorna in porto. Cinquantuno uomini neri stanno lì a guardare. La corsa verso il porto. Finalmente acqua da bere. Le operazioni di identificazione. Qualcuno di loro ha cosparso le mani di colla, o usato la carta vetrata, nel disperato tentativo di cancellare le impronte digitali.

E mentre la bianca nave ingoia cinquantuno uomini neri, sulla banchina serpeggia lo scontento. Alcuni isolani, che avevano imbarcato beni deperibili (principalmente pesce), temendo che il ritardo potesse protrarsi per chissà quante ore, avevano già iniziato a protestare. La nave che sarebbe dovuta partire intorno le 10:15, lascerà il porto con alcune ore di ritardo, con il sole a ponente oltre lo Zenit.

E mentre cinquantuno storie di dolore e paura solcano nuovamente il mare alla volta di Porto Empedocle, qui ci si interroga già su come si dovranno fronteggiare gli sbarchi che avverranno d’ora innanzi con il mare calmo. Quel mare che è croce e delizia dei lampedusani. Quel mare che narra di sbarchi, di naufragi, di lutti.

Arriveranno. Arriveranno ancora. Uomini, donne, bambini. E tra essi, ancora croci. Croci senza nome. Solo numeri e date.

E – in mancanza dei rappresentanti delle associazioni umanitarie – ad accoglierli troveranno loro. Troveranno le magliette bianche, le camicie azzurre, i jeans. Con le loro parole di conforto, con un gesto di cortesia, con un sorriso. Ma cos’altro potrebbero dargli?

Cinquantuno uomini raggiungeranno terra con i loro stracci rossi, viola, neri. Stracci di magliette al vento e al sole. Stracci di uomini al sole e al vento.

Gian J. Morici

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