Dimenticala. Lascia perdere. Non è per te.
Suo zio, lo zio di Renato, glielo aveva detto con gli occhi ancora incollati alla mia mano sinistra, increduli e forse delusi anche, di più; erano questi i sentimenti che vi avevo letto io in quegli occhi stretti di quell’azzurro cupo e pungente, profondo e segreto, mai vuoto eppure imperscrutabile, quando, più volte, indugiando sulle linee disegnate nei miei palmi – me li aveva chiesti entrambi – li aveva sollevati a cercare in fondo ai miei qualcosa che smentisse i suoi pensieri.
Renato ed io ci avevamo riso. Più io credo – che a queste cose non ci ho mai creduto e dato peso, anzi – che Renato, che di suo zio, del fascino del suo conoscere, molto più che di quel suo “sapere”, era abbastanza succube. Ci avevamo riso che eravamo giovani, poco più che ragazzini, anche se in quella storia in qualche modo ci avevamo già dipinto più di quello che si può volere quando ancora non lo sai quello che vuoi. E da giovani ci si sente forti sempre, contro tutto, specie quando si è insieme, non da soli.
Anche Luciano mi aveva chiesto i palmi qualche anno più avanti, Renato ormai non era che un ricordo, in un pomeriggio piovoso e torrido di un’estate da dimenticare, quando, per gioco, per ingannare il tempo che non passa mai quando qualcosa ti impedisce di fare quello che desideri o quello che ti aspetti e corre invece come un treno quando poi lo fai, aveva aperto le carte a turno a tutti, a leggerci la vita indietro e avanti, e a me non gli riusciva a farlo, a leggerla.
Non ti avevo mai vista così, mi aveva detto, gli occhi sui palmi e sulle carte e le parole chiuse in gole. Così come? Ma già ridevo mentre lo chiedevo e si era accontentato di rispondermi La colpa è tua che non ci credi e non mi lasci leggere.
Ci penso stamattina, davanti allo specchio, mentre mi passo e mi ripasso le mani, i palmi, sulla testa, a domare questi miei capelli ricci e ribelli dalla nascita, divisi in mille e mille fili che l’elettricità nell’aria nei giorni di pioggia o di attesa solleva impertinente al cielo.
I fili.
Le linee e i fili.
E non lo so se con le mani cerco un modo per domare i miei di fili, che oramai son più quelli d’argento che irriducibili si azzuffano col mondo della gravità per contendersi lo spazio libero del cielo, o se in realtà non sto cercando quelli più terribili e nascosti della vita, che, fatico a ammetterlo, ma ha domato me.
Fili come i burattini in questo gioco di cui mi sono illusa e ancora io mi illudo di esser libera e padrona.
Fili come le linee disegnate in queste mani che parlano di me. Di ieri di oggi e di domani. Prima di me.
Fili come sotto un lampione in una strada vuota la pioggia fine li rende brillanti, te li fa vedere. Allora ce li abbiamo. Chi è che gioca?
Fili quelli da tendere per stirarti il corpo dopo un grand plie, le parole di Valeria durante la lezione di danza contemporanea, immaginate che, e noi lì a tenderci le membra verso l’alto quasi a sollevarci, a liberare con la volontà e il pensiero le gambe sotto il corpo da ogni peso, a muoverle leggere in un tendu, un nuovo filo a tendere la gamba dalla punta, dentro, quasi a fare male.
Burattini.
A fare bene l’idea che a muovere quei fili c’era il nostro di pensiero. Mai scritto, neanche in una mano.
Fili a togliere peso quelli della danza, quelli del pensiero, della volontà. Un peso che ci schiaccia, che non ci appartiene, e i fili allora sono i nostri è il peso che ci toglie forza non ce li fa usare.
Fili che quante volte io, ma tutti, si è inceppato il nastro, che i cd ancora all’epoca non c’erano, col dito mignolo magari, che una penna quando serve non si trova mai, ho arrotolato indietro, a volte troppo, e il pezzo cominciava un’altra volta dall’inizio, mentre tu con ansia stavi lì a sorbirtelo che già aspettavi quello dopo.
Filo quel nastro viola a quell’esame di progettazione a disegnare l’aria con il movimento padre di un’idea che ci sembrava sulla carta già si fosse spenta, che mimarlo più che esprimerlo con le parole fosse il solo modo di spiegarlo e di ridargli vita.
Fili a legare scatole di oggetti e di ricordi quando si cambia casa o vita.
Fili i telefoni che qualche volta speri che si spezzino per non sapere che ci sono se non sai più usarli.
Fili coi panni colorati stesi al sole.
Fili i discorsi, quanti ne perdiamo e dopo lì a cercare di riprenderli, ma intanto ce ne sono altri, troppi, è troppo facile imbrogliarle tutte le parole, come i gatti quando giocano con un gomitolo che alla fine ci vorrebbe un mago per ritrovarne il capo e dipanarlo per riavvolgerlo.
Fili le corde tese della chitarra che suona su una spiaggia di notte mentre si stringono le mani e si affollano i desideri, solo chi suona no, lui resta solo con la musica che forse è più sincera.
Fili le linee elettriche, gli uccelli appollaiati sopra, la luce in ogni casa quando è sera, linee a tagliare il cielo, mentre i binari no, tagliano la terra, dividono i paesi unendoli, portandoti lontano. Le strade pure.
Filo il cordone della vita, il primo che ti tagliano che non si spezza mai.
Fili la mozzarella calda sulla pizza quando la mordi e sembra che quel filo non finirà più e non sai se ridere o se imbarazzarti che ti guardano. Ma se non fila non è mozzarella no?
Fili.
Fili tra i miei e i tuoi occhi già dal primo istante, quando non li abbiamo visti. Tra le tue mani e la mia pelle. Tra due solitudini diverse e uguali, volute e odiate, cercate e temute. Invisibili che pioggia fine e luce di un lampione non ce ne era, solo parole e baci, tanti, e poi solo parole e i fili erano tesi e lunghi, lunghissimi, come la mozzarella calda sopra la pizza, che l’abbiamo morsa dai due lati opposti e poi alla fine non l’abbiam mangiata. E’ rimasta lì. Ad aspettare forse che quei fili si spezzassero. Sembravano insieme fragili e indistruttibili. Come noi. Che ci siamo fatti a pezzi mille volte.
Che i fili noi, no, non li abbiamo mai cercati.
Che ogni volta che li abbiamo visti siamo stati attenti a non restarci dentro, impigliati.
Che i nodi noi li abbiamo sciolti, stretti mai.
Quelli, quelli tra noi invece, li tenevamo stretti forte tra le mani, tirando a volte, che ci sembrava, ma ero prima io, che tu di forza ne hai di più, e di coraggio soprattutto, di correre forte, troppo. Fili che non abbiamo visto ma che c’erano se poi li abbiamo stretti e tesi così forte che ci sono state delle volte che io c’ho pensato per davvero a camminarci sopra per raggiungerti. E non li abbiamo fatti noi.
Mi guardo le mani. I palmi.
In mezzo a tutte queste linee io non lo so dov’è che c’era scritto, se c’è scritto, che erano quelli i fili in cui io dovevo avvolgermi e cambiare, o se dovevo crederci e trovarmela la forza per percorrerli, la volontà soltanto a tenderli, le mani a farne lungo la strada una matassa da riconsegnarti, che sei stato tu a portarmela e non la vita che non c’entra niente e esiste solo se noi la viviamo. O se l’ho data io a te invece e tu ne hai perso il capo o l’hai attaccato a qualche chiodo in qualche posto dove tu non ci sei più che io lo sento teso ancora il filo e tu invece lo hai dimenticato. Che ci sono io dall’altra parte. O non l’hai fatto. E pensi adesso esattamente quello che penso io. E allora per davvero c’è qualcuno che li ha stesi questi fili e no, non eravamo noi, e ce li ha poi imbrogliati così tanto di altri mille fili e linee, così tante come in queste mani, di cento matasse, solo per vedere come va a finire e a chi per primo stringono alla gola così tanto da morirci o da tagliarli tutti.
Ma se li tagli tutti questi fili che succede?
Cosa c’è sotto?
Il mondo, il vuoto o un’altra rete?