Alla sera me ne sono tornato a casa. Prima di salire le scale, ho sistemato il mio aspetto. In una rientranza dell’androne c’è uno specchio, e la mia immagine è inquietante. Spettinato, ho una folta capigliatura ancora, qualcosa di rossiccio appena sbiancato, e uno sguardo spaventoso. Ho cercato di darmi una sistemata, di riattivare il volto a qualche espressione più umana, cordiale, addirittura serena. Non so se ci sono riuscito. Nel tempo in cui l’ascensore percorre la sua scalata ho provato a riordinare i pensieri. Sono ancora spaventato. Sembro il buon borghese di altri tempi. Salgo sul mio ascensore antico, in questo palazzo al centro della città, dove la mia casa si sviluppa su un unico piano. Sono riconosciuto e rispettato. Anche molto annoiato. Mi rendo conto che è per questo che ho messo a rischio ogni certezza. Comprendo di essere un idiota. Ma non basterà. Non questa volta. Finalmente sono davanti alla bella porta di casa mia. Il biondo morbido di questo legno mi ha sempre fatto pensare ai capelli di mia moglie. E senza riflettere suono il campanello. Primo passo falso. Entro sempre con le mie chiavi, in maniera silenziosa. E’ una abitudine che conservo dai tempi in cui eravamo studenti e già vivevamo insieme. Chi sapeva della mia consuetudine diceva di me che ero geloso, e che per questo entravo di soppiatto in casa mia. Ma non è così, credo piuttosto il bisogno di immaginare di essere in incognito in una abitazione straniera, per poi accorgermi con piacere che è mia quella libreria, e quella poltrona e il tavolino con i libri, e il tappeto. Giocare a fare lo straniero, quello capitato da un’altra dimensione. Una cosa apparentemente innocua. Ma oggi mi accorgo che stavo giocando proprio a quel gioco lì, e ora non so se ne uscirò.
Una volta che la casa mi si confermava come la solita casa, mi prendeva il tedio. Mia moglie era seduta in cucina e alzava la testa per sorridermi. Ora aspetto che mi apra la porta. Non posso fare a meno di pensare all’altra porta, a quella che mi ero tirata dietro le spalle precipitosamente. Non posso non pensare ad Anna, al suo aspetto che non ho avuto bisogno di controllare oltre. Sono un medico io. E nell’andare a precipizio giù per le scale, senza nemmeno sentire il fastidio della mia corpulenza, volavo per quei gradini, mi balenava il viso di Anna come d’un coccio in fondo al fiume, un nobile reperto manomesso dall’acqua, dai detriti, eroso, un fantasma fluttuante. E ne avevo il terrore. Non c’erano pensieri razionali, solo immagini che si autoproducevano, mentre nel frattempo il corpo compiva il suo dovere: correva. Ma ad un certo punto avevo dovuto rallentare, il peso era tornato in me, mi ancorava a quel vicolo, e mi spingeva a pensare: non correre, tu non sei qui. Quindi, con il sudore raggelato lungo i lombi, mi ero condotto alla mia macchina, per benino, e a casa. Di fronte alla porta che mi avrebbe aperto mia moglie. Avevo attraversato Parigi, dal sobborgo dove abitava Anna, un lercio sobborgo a nord est, come mi era piaciuto dirmelo, sussurrarmi “un lercio sobborgo”, così eccitante era per me immaginare la penombra delle sue stanze, un certo abbandono, il divano stinto, le persiane accostate, le grida in gergo dei vicini, lo sporco del vicolo, tutto il campionario che aveva presa su di me, purtroppo. Anna l’avevo conosciuta in clinica, mi avevano chiamato per una consulenza, ed ero andato. Non faceva parte della mia clientela privata, e accanto al suo letto non c’era la sua famiglia, ma un uomo che poteva permettersi di pagare la mia scienza. Con lui parlava esclusivamente in verlan, era magrissima, calma, arrendevole. Così mi ero addentrato in quella relazione, spostandomi dal nord est al sud est della città qualche volta alla settimana. Ero un provinciale, lo ero sempre stato, avevo sposato la mia compagna di corso, avevo studiato come un mulo, volevo la casa, volevo i soldi, volevo il prestigio. Ero diventato massiccio, il rosso dei capelli si era sbiadito, e la sera entravo in casa mia, in punta di piedi, e cosa vedevo? Un luogo confortevole, la testa bionda di mia moglie china a guardare il pavimento della cucina. Certo, spostarmi verso le banlieu, a volte in pieno giorno, annullavo gli appuntamenti meno importanti, le partecipazioni benefiche, andassero in malora,comportava qualche rischio, ma avevo la sensazione, in qualche modo, di essere protetto. Non cercavo una situazione “confortevole” come nella vita ero andato costruendomi, ma volevo incontrare un estraneo, ricongiungermi con un fratello separato alla nascita, girare per casa nudo, perfino sporco, lasciar passare le ore tra una dose, un delirio, una fantasia. E di Anna, che pensavo? Me lo chiedevo ogni tanto, quando riprendevo il controllo della situazione, quando l’estraneo si allontanava, quando risalivo sul metrò e raggiungevo la parte decente della città.
Si socchiude la porta, e mia moglie mi scruta. E’ molto che non vedo bene in volto mia moglie. Passavano gli anni e mi sembrava sempre uguale, doveva capitarci tra le mani una foto per misurare la distanza che avevamo percorso. Ora è molto evidente, e forse lei questa evidenza la rimugina da tanto tempo.
– Hai perso le chiavi?- mi chiede e non si sposta per lasciarmi entrare. Rimane immobile come una pietra. Mi guarda con il sospetto che si riserva al venditore di polizze. Dico di no, sorrido, mi appoggio con il gomito allo stipite, mi passo una mano tra i capelli:
– No, volevo che tu mi aprissi.- Ora io so che se faccio un certo sguardo e sorrido in un certo modo, posso far abbassare gli occhi ad una donna. E so che se non funziona io sono preso per sempre. Con Anna non funzionava, stava troppo male per perdersi in preamboli, e mia moglie aveva sempre finto di non impressionarsi. Ma stasera lei mi guarda fissamente:
– Sei sporco- mi dice, e finalmente mi lascia entrare. Mi precede. Chiudo la porta, respiro. Ora sono al sicuro, per qualche ora forse. Devo pensare. Lei mi aspetta vicino alla sala da pranzo.
– Hai il viso macchiato, e anche il cappotto. Cosa è accaduto?-
Mi giro verso lo specchio sopra il camino. Ho delle macchie brunastre sulla fronte, e sul bavero del mio perbene cappotto di cammello. Mi avvicino di più allo specchio, perché sono vecchio, perché sono settimane che assumo sostanze con la mia amante, che le trasporto perché minacciano di rovinarmi, perché non ho fatto che rotolarmi in quello sporco per mesi, e tu, con il tuo occhio pulito, non te ne accorgevi. Non vedo bene.
– Portami un bicchiere d’acqua, per favore- e mi lascio andare sulla poltrona di marocchino, davanti al fuoco. C’è della legna in casa mia, e il riscaldamento in tutte le stanze. Degli stucchi ai soffitti, e lo specchio che mi riflette, è del cinquecento. O almeno così dice mia moglie. Il pavimento in casa di Anna è di un vecchio linoleum azzurro. Mi sono piegato verso di lei. Prima di salire avevo preso delle pasticche, e ancora prima, nel mio studio mi ero iniettato qualcosa. Volevo arrivare già trasformato, trovare ardente quello squallore, indagare altre possibilità, il coraggio per esempio, o per meglio dire, nessuna paura, quando spuntava quell’uomo a minacciarmi, o a guardarci. Invece Anna era lì, indifferente. Allungavo le mani per coglierla, lei sembrava un sasso sul fondo dell’acqua, irraggiungibile. Forse allora, l’avevo toccata, e poi mi ero passato le mani sul viso, per la disperazione, il disorientamento. La mia macchina l’avevo trovata aperta, ma non ricordavo d’averla chiusa.
– Portami dell’acqua!- Sto gridando.
E lei è ancora ferma, che mi guarda. Vorrei che si avvicinasse, e mi togliesse le macchie dal viso, e mi mostrasse della pena. I suoi occhi sono più piccoli, le palpebre li gravano, rendendoli penetranti.
– Che vecchio sporco- mormora. Sollevo la testa e la guardo stupito. Lo aveva detto, un giorno, in quello stesso modo, di uno che le aveva dato fastidio. Ad un nostro appuntamento era arrivata arrabbiata, la sua biondezza era spaventosa, carica di luce. Ora lo diceva a me.
– Non sei cambiata tu- le dico. Lei non si avvicina.
Voglio dell’acqua, le vene mi bruciano, e poi voglio lavarmi. Mi guardo le scarpe, e sono incrostate della guazza del banlieu, e del sangue di Anna.
– Cosa ti mancava- chiede mia moglie.
– Ah non so – rispondo e mi viene da ridere. Io non ero là, ci andavo in visita di un uomo sconosciuto, a cui piaceva bere, e drogarsi, fare le cose che raccomandavo continuamente di non fare ai miei ricchi clienti. Mi piaceva Anna, così scura, arresa, quanto invece lei sapeva di giorno, di bucato, di sano, ora anche di rotonda maturità, così carica di buona salute, solo più silenziosa, seduta in cucina al buio, e la tavola apparecchiata in salone. Seduta al buio. La guardo.
– Dovevi proprio togliermi tutto-.mi dice
-Oh ma smettila, non ti ho mai tolto niente. Invecchiavamo, e ognuno aveva la sua vita. Per te non ero che una macchina per fare soldi. Non so quand’è che hai smesso di cercare altro da me.-
Che discorsi stupidi. Non ho il coraggio di dirle la verità, ma di quel che dice uno come me, nemmeno io mi fiderei. Comunque ora sento che non ho mai smesso di amare mia moglie. Non era questo, non era l’amore che cercavo, al contrario, cercavo l’odio, il disgusto, l’abisso. Non so perché. Avevo le chiavi di tutte le porte ma di quella no. Quando qualcuno mi ha aperto mi sono infilato dove per procedere bisognava strisciare. E l’ho fatto. Ora mi dice che ho scavato un solco, in tanti anni. Non essermi mai accorto della sua depressione, quale depressione? Perché non me ne hai parlato. Non ascoltavo, mi chiudevo nello studio a drogarmi. Lei sapeva tutto, qualche volta l’ho fatto in casa mia. Ho portato anche Anna qua, quando tu eri in vacanza. Lo sai perché tutti ci hanno visto. Caspita, pensavo di essere invisibile. Non so perché, ma ho come la sensazione che lei non stia mai ferma, a volte mi sembra vicinissima, o addirittura credo mi parli dalla mensola del caminetto. O lei non parla, sono io che penso. Infatti intuisco la sua figura seduta in cucina, vedo le gambe, la gonna sotto il ginocchio. Bisbigliano, parlano, la consolano. Ma c’è qualcuno in casa oltre noi? Non ho sentito il campanello. Vedo un movimento di persone in divisa, altri in borghese. Nella mia macchina c’era del materiale buono per mettermi a riposo per molti anni. Debbo confessare? Ho ucciso Anna? Sono stanco, non sarei in grado di nuocere a nessuno. Mi conosco bene. Conosco bene uno dei due, l’altro non so. Potrebbe essere, che io sia entrato, che io abbia trovato Anna con un altro, che insieme mi abbiano deriso, che io sia stato infine cosciente del delirio umiliante in cui mi ero cacciato e che per un attimo non mi piacesse più. Può essere che io mi sia liberato di loro. Lei protendeva le mani verso di me, erano come pallide meduse, e cadeva, nel fondo buio dell’acqua, dove riposa ogni segreto.
Sara Milla
6 maggio 2012
La scorsa primavera ho organizzato un corso di scrittura di racconti, al quale hanno partecipato 12 persone. Ciascuno dei partecipanti doveva svolgere degli esercizi che poi, nel giro di qualche mese, hanno portato alla scrittura di un racconto vero e proprio, consegnato nella prima metà di giugno. Uno degli allievi mi aveva piacevolmente sorpreso con un racconto maturo, dove lo stile accompagnava in modo del tutto naturale la storia raccontata. Ho fatto dunque i miei complimenti a questo “scrittore”, e per un attimo ho sperato che il suo talento trovasse un giusto riconoscimento
Ieri sera, quasi per caso (in realtà nulla succede per caso: diciamo che ho seguito un’intuizione), ho scoperto che il racconto non era originale: era stato copiato e incollato a partire da questo. I piccoli cambiamenti apportati erano tutti in senso peggiorativo. Ammetto di aver sofferto parecchio, nello scoprirlo – non è semplice accettare di essersi fatti abbindolare da qualcuno… Ma il mio parere sul racconto è rimasto lo stesso: ben scritto, con mano molto sicura e originale. E mi sembra giusto girare questi complimenti al vero autore del racconto, cioè Sara Milla.
A presto,
Paolo
grazie Paolo, immagino che tu sia dispiaciuto e ti ringrazio dei complimenti. Credo che il tuo allievo abbia abbindolato solo se stesso. A presto