La strada dove abito è piena di buche.
Qualcuno adesso mi dirà che non è solo quella strada ad essere piena di buche ma che tutta la città è un groviera e che la colpa è dell’Amministrazione, non importa quale, tanto son tutte uguali, qui non cambia niente, in questo paese. Qualcuno invece proverà a spiegare. Perché per ogni strada per tutte queste buche una teoria si può trovare, ci può sempre stare, che certo non può motivare una carenza di manutenzione, quello no, però magari aiuta a far capire quanto è arduo e faticoso provvedere e farlo di continuo. E parlerà di cavità del sottosuolo, di vibrazioni che non erano previste, di mezzi pesanti, di percorsi costruiti su alvei di torrenti che tornano tali con le piogge e di uno smaltimento insufficiente delle acque, certo che se si tenessero pulite le caditoie, e poi la pavimentazione e i parcheggi selvaggi e i lavori in corso e.
Beh per la mia strada la teoria ovviamente c’è ma la manutenzione c’entra poco. O meglio c’entra per tutte quelle buche che compaiono dopo le piogge o dopo un qualche accidente alle condotte o dopo una delle altre mille cause che rispondono ad ognuna delle altre teorie.
Ma quelle sono buche che io non conto, che compaiono all’improvviso, dalla sera alla mattina, come un nuovo neo, un foruncolo, una ruga in più. Che con ritardo prima o poi qualcuno verrà a chiudere, o a coprire, sarebbe meglio dire, come si fa col correttore sopra il viso, prima di stendere il fard o il fondotinta, che il segno resta, e appena piove ancora, o piangi, torna fuori.
La strada dove abito è piena di buche che non si possono coprire e che resteranno sempre. A meno di decidere di chiuderla, per una vita o quasi, per come funziona qui, e rifarla per intero. Sotto prima e poi sopra. Perché era una strada di campagna che fu usata per portare l’acqua alla città che cresceva, a monte e a valle. E non c’erano i palazzi, i parchi, le case, la gente, la vita che c’è adesso. Né si pensava che ci sarebbero stati. E la condotta vi passava al centro, anziché sui lati. Come man mano tutti gli altri sottoservizi. Così ogni volta che sorgeva un edificio, spesso abusivo, per attaccarsi alle condotte, si apriva nella strada un buco nuovo. Più di uno. Ed è così che ogni tre metri, quando va bene, ci sono almeno due tombini.
E’ una strada da record. C’è chi ci fa le gare per riuscire a farla tutta senza mai toccarne uno con le ruote. Ed è un’impresa, non da poco. Dicono impossibile.
Ma non è questo quello a cui io penso adesso.
Anzi non ci ho mai pensato, neanche ci ho provato, eppure sono una a cui piace guidare, quasi mi sembra strano; magari dopo adesso, che mi è venuto in mente, scendo, prendo l’auto e questa prova me la faccio anche io, così tanto per fare, per passare il tempo, in uno di quei giorni, meglio quelle notti, in cui il tempo proprio non ti passa mai.
Né sto pensando a perché ci sono e perché ci saranno sempre. Alle teorie.
Penso che abito qui da tanto tempo e che li conosco tutti quei buchi, uno ad uno.
E chissà perché mentre oggi ritornavo a casa ripensavo alla sua pelle, che la conosco come questa strada. In ogni piega, in ogni ansa, in ogni fremito. Come lui la mia.
E che fossero passati tanti e tanti anni dall’ultima volta che lo avevo accarezzato, che mi aveva accarezzato, non ha significato nulla. Qualcosa si. Qualcosa cambia sempre. Non sempre, a volte. Insomma dipende.
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Credo sia stata quella frase. Mi è tornata in mente più volte dopo quella sera. Eppure lì per lì mi era sembrato non mi avesse detto nulla. Anzi ci avevo scherzato su e senza amarezza, che l’amarezza non si addice che ai rimpianti e lui non lo è mai stato. “Quante volte ti ho baciato.” “Più io, che io ricordi.”
Ecco di mille e mille volte che io l’ho baciato, che lui mi ha baciato, che ho percorso con le mani, con le labbra, con gli occhi, con la pelle, la sua pelle, lui la mia, ora, come allora, quello che mi sorprendeva, al di là del sentire, che non era più lo stesso, non per me, era la conoscenza. La familiarità. Ed il pensiero che io la scoprissi solo adesso. Adesso che io non sentivo niente.
Incostante. Se c’è un aggettivo con il quale mi sono sempre descritta nelle mie passioni è questo. Incostante che poi è diverso da volubile. Nel senso che non cerco altro per il gusto o la necessità di nuovo, di cambiare. Ma cambio, io. Insieme alle cose e allora si va avanti insieme, o da sola, e da sola vado avanti.
Questo vuol dire che eravamo stati bravi. O che era stato bravo lui, o io, insomma che eravamo cambiati insieme e tante volte, almeno mille e mille quanto i nostri baci se mai me ne ero accorta che li conoscevo tutti, uno ad uno, come le buche della strada dove vivo adesso. Che poi pensandoci a me quei buchi non mi hanno dato noia mai. Credo di essere l’unica a pensarlo. L’unica matta o forse è l’incostanza ad essere la mia follia.
E’ come l’autostrada o la strada per il mare. Quella che faccio da una vita. In autostrada mi addormento, o quasi. Anche su un percorso nuovo, che non conosco. Dopo un po’ è tutto uguale. La strada per il mare la conosco come le mie tasche. Ed è una strada pessima, specie di notte, e dopo una giornata di stress a chiudere valigie e casa e sbrigare commissioni dell’ultimo istante. E dopo due noiosissime ore in autostrada. Eppure succede che mi sveglia, mi prende, mi eccita. Ritorna nuova, nuova e identica insieme. Un costante inseguirsi di riscoperte. Dopo questo, quello. Nessuna sorpresa. Non è questo quello che mi manca.
Conferme. Le conferme sono magiche scoperte.
Io cambio, vado avanti, passa un anno e torno. E dopo quella curva c’è ancora quell’incrocio e poi lo stop e poi una curva ancora. E quando torno a casa, ogni giorno, tutti i giorni, c’è l’incrocio e poi attenzione, piano, lì c’è il tombino, e ancora, adesso l’altro, e l’altro.
Così le mani mie sulle sua pelle a ritrovarlo. A riscoprirlo. Anche ogni giorno, anche ogni notte. E non ci avevo pensato mai, a quante volte era successo.
Oggi si. Oggi che l’ho scoperto, quanto lo conosco, sì, ci ho pensato.
Ed ho pensato che non son le buche nuove quelle che contano, che poi si chiudono. Come si coprono i foruncoli, le rughe, le macchie della pelle. Anche quelle che ti fanno vera, che raccontano di te.
E che non contano in fondo neanche le sorprese delle riscoperte, le conferme.
Conta voler tornare.
Che se si vuol tornare tutto torna nuovo, nuovo e identico insieme, mille e mille volte. Non lo puoi contare. E non lo conosci. O almeno non lo sai. Lo dimentichi, e lo riscopri.
Non farò la prova. Sulla mia strada intendo. Non finché vivrò qui, finché ne avrò voglia.
Le buche le conosco tutte. Una ad una. Ma le scoprirò ogni giorno, ripercorrendole, ritornando a casa.
Avrei voluto provare a farlo anche con te. Percorrerti, dimenticarti, rifarlo, tornare, riscoprirti. Dimenticandoti ogni volta, ricordandoti ogni volta.
Che l’unico ricordo che resta
Per Sempre
è quello che dimentichi e che vuoi ricordare.
E allora forse è giusto che la strada per raggiungerti io non possa più trovarla per tornare, anche se voglio farlo.
Conta Voler Tornare.
E questo gioco di amnesie è alla fine solo un trucco mio per ingannare l’incostanza.
Mai per sempre.
Che l’incostante non lo conosce il per sempre, neanche se succede. E la Memoria si vendica. Che l’unico ricordo che resta per sempre è quello che dimentichi e che vuoi ricordare, ma non puoi tornare.
Così resta,
amaro,
come un rimpianto.