Una cosa poco confortante della maturità è l’attitudine a non convincersi più che gli altri o te stesso si agisca per il bene e per l’amore, e per la lealtà e la generosità..non so, tutto quello che da ragazzi era così assoluto, così indiscutibile, così chiaro, nel tempo ha mostrato il suo rovescio. Resta così poco, e a quel poco ti tieni stretto come al ramo nel mare in tempesta
Così il tempo ti asciuga, non ti trasforma, ti spolpa, come lo scultore quando screma la creta, e alla fine rimane l’osso, la forma cruda, che ti fissa,e tu distogli lo sguardo. Vai raccogliendo qualche ricordo: sono generoso, sono buono, sono un amico, sono devoto, qualche reminiscenza del Tipo che volevi essere. Ma lo sai, lo sai chi sei. Per un po’ ti trascini nella confortante supposizione che gli altri siano migliori, che tutto nasce dalla tua complicazione, dalla tua storia, dalla tua infanzia, dalla vita intrauterina, a ritroso, a ritroso. Poi gli altri sono come te, statue crude che si disseccano. E mentre trascini la tua vita dal letto alla stanza da bagno, dalla fermata dell’autobus al posto di lavoro, qualcosa finalmente ti colpisce. Qualcuno. Qualcuno vestito in un certo modo. Qualcosa. Abiti. Combinazioni. Ecco, più esatto, combinazioni. E armonie disarmonie. Insomma un uomo, alto, con la coda, e gli occhiali da sole, e gli orecchini, e i tacchi, e una mantella rossa, un insieme di rosso e nero ben combinato, eccentrico, ardito, mi piace, bello. Poi arriva l’autobus. E’ il tuo, non il suo, e non ci pensi più. Viene la domenica. Sei lì che ti alzi più tardi, ma non tardi come una volta, perché il tuo corpo ti sveglia. Una volta vi dovevano svegliare, a te e al tuo corpo. Ora il corpo duole, ed anche i pensieri, urtano verso il corpo e lo riaccendono. Con un suono mutato, che solo tu avverti, l’edificio dalle impalcature sino alla punta ondeggiante dei capelli, riemerge dalla stanchezza della notte, quando ti sei affannato a cercare un sogno, una corrispondenza, una risposta. Ma c’è, dopo il caffè che hai bevuto fluttuando nello sconforto del giorno vuoto, l’avanzare dei doveri, la routine da officiare del bucato, del pranzo, della lucidatrice, della lavatrice, qualsiasi cosa che abbia preso per fortuna il posto del pensiero, pericoloso, su te stesso e la vita. Alle diciotto e trenta vai in chiesa. Qualcuno ti deride, mentre finisci di impilare gli ultimi lenzuoli, piegare gli asciugamani. Qualcuno ti ostacola, ma tu ti vesti e vai. Certo non ha senso, ti dicono. Allora tu vai, a perdere il tuo tempo. Così ti dirigi verso un banco lontano. Tu dormi. Finalmente dormi, in quel luogo rotondo, tu chiudi gli occhi. E quando li riapri, lo vedi. Ha un impermeabile stile holmes, i capelli tra il biondo e il bianco, raccolti nella coda, gli occhi bassi. Gli orecchini a palla. E’ in fila per la comunione. Va per ultimo, con gli occhi bassi. Lo sento cantare, è stonato. Esce per ultimo dalla chiesa. Fuori piove, e apre l’ombrello, lo tiene inclinato, per schermo, per tenda, per nascondiglio, e così è più evidente, e qualcuno, qualcuno sorride.
Ancora io lo vedo, che va via dentro la pioggia e l’asfalto lucido, con gli stivali che ricordano i camperos, ma in versione casalinga. Li ho portati anch’io, ricordo, avevo vent’anni, e calze colorate. Va via veloce. Come me del resto, che torno alla mia casa, alla cena, al televisore, al sonno magnifico che mi sospende l’esistenza.
Ricomincia poi la prova, la giornata che è ancora buio, il caffè, la luce che si diffonde sul balcone. Lavarsi e vestirsi non dà più nessuna gioia, ricordi il piacere di guardarsi, di sognarsi? E infagottati si prende la macchina, si esce dalla strada, si passa veloci, e lui oggi ha un completo bianco e nero, e dei tacchi alti, tu ti chiedi dove andrà a lavorare, come avrà organizzato le sue relazioni, quanto sarà stato difficile per lui. E ti viene da ridere,di te. Se piove, ti accorgi di lui, si nasconde, letteralmente si nasconde, dietro l’ombrello. I ragazzi si girano e ridono. Quella mattina lì c’ero io. E’ rimasto fermo come una pietra, eppure c’era vento, fermo dietro l’ombrello, dietro i grandi occhiali scuri e io potevo scrutare i suoi abiti, la sua capacità di combinarli assieme, il piacere che aveva messo nel vestirsi. E mi sono guardata i piedi, con lo scamosciato raso terra, e i pantaloni, o neri o grigi, non di più, il giubbotto nero, i guanti di pile, chi è l’uomo qui?E per fortuna che è inverno. Così siamo saliti ognuno sul proprio autobus. Fino alla mattina dello sciopero. In cui eravamo seduti sul sedile, stremati, nel vuoto della strada, io nel mio sonno lui nella sua ossessiva attenzione. Niente ombrello, anche se lo teneva aperto pure quando c’era il sole. Troppo vento. Lasciavamo che ci ingiuriasse. Io pensavo ai miei guai, ed ero livida di odio, era il giorno in cui smetti di considerare il destino doppio, di pensare che nel male si celi il bene, nella fortuna la sfortuna. Non passava nessuno e nessuno potevo incenerire, e tanto meno avrei incenerito lei, è strano come il silenzio dell’altro ci induca alla fantasticheria. Non facevo che parlare con quell’uomo, con la lei degli abiti, solo attraverso le sue scelte cromatiche, il suo corpo da uomo, il suo viso gradevole, gli orecchini rosa. La sua religiosità, il suo riserbo, il mistero che volente o nolente, mi proponeva. Lo sapevo che guardarla mi avrebbe distolto dalle rabbie mie. Sapevo che non le avrei parlato. Perché sei così, dalla nascita, e non cambi. Perché in chiesa mi metto al banco più isolato, evitando di scambiarmi il segno della pace che mi angustia. Figuriamoci iniziare a parlare, con il rischio di non ricevere risposta, e schifarsi ancora di più. Così rimaniamo seduti, ai bordi della pensilina, ambedue con gli occhialoni da sole, due manichini. L’occhio mi cade sulle sue scarpe, calcolo l’altezza del tacco e quello della zeppa anteriore e decido che pure io ce la potrei fare, e allora mi faccio forza: -Scusi- sussurro. Per un attimo ho paura che spalanchi di colpo l’ombrello e mi emargini con chiarezza. Ma non si muove. Il vento scuote i cartelloni pubblicitari sul marciapiede di fronte. Mi accorgo del fragore della strada vuota.- Scusi- dico più forte e allora si gira. Mi rendo conto che non posso chiederle dove ha comprato le scarpe, e domando se sa dello sciopero. Lo sa. Parla come un uomo, con una timidezza preoccupante. Passa del tempo, continuiamo guardare in direzione di un autobus che non arriverà. E’ tardi. Fa freddo. Lei ha una mantella azzurra.
–Scusi le posso chiedere dove ha comprato queste belle scarpe?- Mi viene da piangere. Se fosse stata una donna vera non glielo avrei chiesto, col cavolo che glielo avrei chiesto alla fanatica. Forse ora mi insulta, penso. Ma molto piano, molto piano, mi dice che non lo ricorda, sono il dono di un’amica. Secondo me le ha prese all’usato, come tutto il resto, credo. Ormai sono lanciata, ho tanta paura ma ho voglia di parlarci, si, perché è vestito da donna, naturale. Gli dico che sono davvero belle, che tutto il suo modo di vestire è bello, che glielo volevo dire. Smetto perché ho un nodo alla gola e non capisco proprio perché. Non ci siamo avvicinati. Nel vento sento che lui mi dice: grazie.
Arriva un autobus, il suo. Nello stesso istante avanza un gruppo di ragazzi, escono da un garage. Si accosta lentamente l’autobus, si appressano velocemente i ragazzi. L’autista apre le porte, io sorrido e la saluto, lei vorrebbe, ma salta sull’autobus, guarda in basso, verso la punta delle sue bellissime decolleté bluette. Quando si chiudono le porte, in coro, da terra, i ragazzi schiamazzano, la insultano. Io gli voglio bene, come se avessi diciotto anni, e fossi pura, e credessi al bene, al lieto fine, all’amore, alla solidarietà, alla mia grazia, al mio buon cuore. Al coraggio, che non ho, ormai lo so. Lei mi guarda, dall’ampio finestrino posteriore dell’auto che se ne va.
Dico alle loro facce rosa, fatela finita, andate a scuola piuttosto. Si girano a guardarmi, non rispondono. Fanno qualche passo verso il cancello di una casa. Il cane abbaia. Allora sputano sul cane.