La strada era in salita, e con le sue gambone tutte d’un pezzo, arrancava. In una mano aveva un lungo bastone e nell’altra il suo bottino. La vedevo risalire così, dal mio balcone, anzi dal balcone suo, perché la casa era sua, la proprietà era sua, l’aria era sua, nonostante noi tutti pagassimo un affitto, lì era tutto suo e non cessava mai di esserlo.
Il sacco di plastica nera che brandiva era pieno dei rimasugli alimentari di altri sacchi rimestati nel secchione della spazzatura. Li trascinava fino al suo cortile, e davanti al pollaio, li smistava. Le mele intere da una parte, i pezzi di pizza, di pane e le ossa, per il cane, dall’altra.
Il cane era legato ad una lunga catena, e si grattava incessantemente. Le galline si radunavano nel breve spazio di rete e ferro spinato, tremule e inoffensive. I topi e i passerotti aspettavano: che il cane lasciasse disgustato nella sua ciotola un così barbaro pranzo, che tornasse alla sua atona tristezza, al suo buon muso tra le zampe.
Lei, la padrona, riponeva con cura il cibo sporco, lavava le mele buone e le portava a casa sua. Davanti al portone incontrava la gatta dell’inquilina, e se lei era sul balcone, raccoglieva un sasso e lo tirava alla bestiola, sperando di ucciderla. Poi rientrava nella sua casa, si toglieva le scarpe, e andava a sciacquarsi i piedi in un catino dove conservava l’acqua raccolta al mattino dal lavaggio delle verdure. L’acqua costa. Non accendeva la luce, aspettava che i lampioni illuminassero la strada, quei fanali che lei non aveva voluto, e con la luce dei fanali che entrava nella sua stanza, cominciava a sferruzzare: un maglione fatto di tanti altri vecchi maglioni sfilati e ridotti a matassa. Poi andava a dormire, ed era presto. Se qualcuno quindi sopra di lei preparava la cena, o giocava con i figli, lei scendeva dal letto, prendeva lo scopettone e cominciava a bussare sul soffitto. E se i viventi non smettevano di respirare lei li bestemmiava.
Si svegliava molto presto e si preparava il caffè. Poi usciva dalla sua casa e controllava le soglie dei vicini, o meglio, di coloro che vivevano nel suo palazzo. Qualcuno non lucidava i pomelli, altri avevano lo zerbino inzaccherato, o la porta che non profumava di lucido. Cominciava a borbottare che erano sporchi, sporchi, sporchi. Prendeva la scopa e spegneva la luce delle scale, che qualcuno aveva lasciata accesa, per non scapicollarsi, ma che lei malediva. Le foglie dell’autunno devastavano i tre scalini antistanti l’entrata, e lei le malediva. La strada era deserta, stretta, due macchine assieme non ci passavano. Andava a controllare che i pneumatici delle macchine non toccassero la cortina del suo palazzo, perché l’avrebbero macchiata di nero, e lei la cortina l’aveva pagata. Allora prendeva dei sassi appuntiti, dei laterizi, e li piazzava vicino al muro, così le macchine non potevano accostarsi. Se si trovava tra le mani le sue chiavi appuntite, segnava le macchine, quelle che si erano comprate quegli inquilini che tanto si lamentavano del costo dell’affitto, che volevano il riscaldamento acceso per troppe ore, ed infatti lei andava a spegnerlo, perché era casa sua, lo decideva lei quanto stare al caldo.
Poi afferrava la sua sporta, e andava al mercato della borgata, nel giorno di mercato.
Si il vento era fresco, e intorno non c’erano che giacigli di foglie dove si spiumavano merli in cerca di bruchi, o di semi. La strada era di confine alla periferia, e limitava i campi antichi, e dopo una forra, in lontananza, si vedeva un casolare, e da lì l’orizzonte illuminava le stagioni che si avvicendavano sul rettangolo di terra. Ed ora il campo era sgombro, dissodato, riluceva al cielo levigato dal vento e colmo di pioggia. Lei andava con il fazzoletto intorno al collo, il cerchietto che teneva fermi i capelli grigi dritti come chiodi, che si era tagliati da sola, di netto. Lei andava rimuginando conti, controllando le sue proprietà sparse per la borgata, con occhi stretti e senza fiducia. Al mercato cominciò a rubare, a trattare sul centesimo, ad ammaccare gli agrumi per averli a meno. E intanto contava il suo risparmio, e si contristava della sua povertà, della sua solitudine, dell’avidità degli altri, di coloro che consumavano le sue scale, i suoi appartamenti, che pretendevano che lei provvedesse a rimettere a posto i tubi dei bagni, a risanare le perdite d’acqua, le mattonelle scoppiate dall’umidità. Che non volevano pagare le quote non di spettanza, andarsi ad attaccare così al centesimo in faccia ad una povera vedova. Così tornava indietro, e dava un’occhiata disgustata in lontananza, dove la terra e i suoi solchi grassi attendevano beati la pioggia: l’avrebbe voluta quella terra e al contempo ne era scappata, l’aveva venduta al suo paese per farsi la casa qui in città. Si era presa quello per marito, che non voleva lavorare la terra, come lei, per venire qui, nella grande città, mai visitata per altro, si spendono solo soldi ad uscire. Guardava quella laggiù con rabbia, perché era tanta, e c’erano gli uomini a lavorarla, perché ci vogliono gli uomini, invece suo figlio. Suo figlio non aveva ancora cinquant’anni ed era demente. Chi avrebbe mantenuto la famiglia ora, lei? Suo figlio abitava al quinto piano e non c’era l’ascensore, nella sua palazzina. Sarebbe rimasto lì, aveva il terrazzo. Era un uomo grande e grosso, sarebbe rimasto lì, sul terrazzo, a guardare il cielo disteso verso il tramonto.
Nel rientrare controllò la posta di tutti, e rubò quella della ragazza del terzo piano. Avevano litigato. Ora le rubava il cedolino di pagamento della luce, così gliela staccavano. Doveva andare via, si, doveva andare via da lì, trovarsi un’altra casa. Lei non la voleva lì una che faceva di testa sua, una che si ribellava. Una che ora si muoveva come se lei non esistesse. Niente era valso: ucciderle gli animali, forarle le ruote della macchina, niente. Continuava a pagare con regolarità, e a negarle quei centesimi di contributo su tutte le spese. Aveva fatto registrare il contratto a un certo Giuseppe, per regalo gli aveva comprato mezza forma di formaggio, perché doveva pagarla tutta lei? Ma la signorina non contribuiva, diceva che non le spettava. Aveva aspettato il suo gatto, e lo aveva ucciso. I gatti sporcano, lo aveva fatto sparire. La sentiva da casa sua, che fischiava al gatto, per vederlo tornare. Lei era una ragazza sola, toglierle quel gatto l’avrebbe fatta soffrire. Forse morire. Strinse le labbra e si nascose l’avviso di pagamento in tasca. Ogni tanto arrivavano i carabinieri, per qualche esposto. Ma lei era vecchia, lamentosa, con il suo grembiule pulito e consumato, i suoi fianchi grassi, il suo viso muto, chiuso, gli occhi stretti, abbassati, le mani gonfie, rosse. Un quadro.Tutto perché quella cretina viveva in finestra, la controllava, preveniva le sue mosse. Ora dava da mangiare a tutti i gatti della zona. Tornavano i suoi nipoti. Erano cresciuti, giravano in moto, accidenti a loro e a chi li fa campare. Allora cominciava a lamentarsi, appena ne vedeva uno, di coloro che erano i loro vicini, paganti, arrabbiati, mortificati dal bisogno di una casa. Dovete reagire, in prima persona, ai torti che fanno a vostra nonna. Hai visto quella, dà da mangiare al gatto che ha ucciso i pulcini.Che ti ci vuole, con la moto, gli passi sopra. I nipoti sono alti, nutriti, con gli occhi chiusi, il volto senza espressione. Domani, ora siamo stanchi.
Dall’ultimo piano arrivano i muggiti di suo figlio, che si slancia verso la porta e pare che la voglia abbattere. Lei ha le ginocchia gonfie, non ha voglia di salire, ma sente per le scale sua nipote, la più piccola, sente che la piccola trema, mentre scende a precipizio le scale, mentre la madre la chiama:-Dove vai, dove vai?- che ha il terrore di rimanere sola con quel gigante infuriato, spaesato. Scende dalla nonna, e mentre vola giù per le scale si apre la porta della ragazza. Sorride alla bambina e la saluta. E la bambina le fa cenno con la mano, di nascosto dei muri, delle scale, delle ringhiere, di tutto ciò che è di sua nonna e potrebbe riferirle di quell’intimità, di quel gesto amichevole.
Arriva sul pianerottolo della nonna, che ha ancora la porta aperta. La padrona le chiede: chi ti ha salutata? Quella? Non la salutare, non la guardare. La gente è cattiva.- e richiude la porta dopo che la bambina si è infilata in casa sua, quella casa che odora di niente.
Sara Milla