La voce di chi non ha voce – Vittime di Mafia

L’idea di aprire una nuova sezione nel giornale, l’avevo avuta l’8 dicembre 2010, dopo aver incontrato Giuseppe Ciminnisi, quello stesso giorno, quando la Corte d’Assise di Agrigento condannò in primo grado all’ergastolo Salvatore Riina e Bernando Provenzano, per la strage del 29 settembre 1981, quando a San Giovanni Gemini vennero uccisi Gigino Pizzuto, capo mandamento di Castronovo di Sicilia e due vittime innocenti che pagarono il fatto di essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano .

Durante l’incontro con Giuseppe, figlio di Michele Ciminnisi, avevamo ripercorso insieme quegli ultimi 29 anni, che avevano visto un ragazzino spensierato trasformarsi in un uomo desideroso di giustizia e determinato ad ottenerla.

Ma quanta sofferenza, quanta solitudine, quanta amarezza c’è lungo la strada di chi ha perso un proprio caro, ucciso da killer feroci e spietati che non si fanno scrupolo di sparare contro donne, vecchi e bambini, pur di raggiungere i propri obiettivi?

Vittime innocenti. Morti nell’espletamento di un dovere, come nel caso di magistrati o forze dell’ordine; morti per caso, per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, come per il papà di Giuseppe; in tanti altri casi, morti per non aver abbassato la testa dinanzi belve umane che conoscono soltanto l’arroganza prepotente di chi sa usare un grilletto, e, a volte, solo a tradimento.

Belve umane, spesso senza coraggio, la cui forza sta nell’assenza dello Stato,  nell’altrui vigliaccheria, nel silenzio di quanti potrebbero e dovrebbero parlare o scrivere. Quel giorno, l’8 dicembre, avevo salutato Giuseppe, certo che ci saremmo rivisti. Lo avevo seguito con lo sguardo, mentre saliva in macchina, per tornare in quel paese dove molta gente lo aveva abbandonato nei momenti più difficili della sua vita.

Giuseppe, quel giorno, dopo la condanna di Riina e Provenzano all’ergastolo, disse che quella non era la sua vittoria, ma quella di tante famiglie che vivevano la sua stessa situazione. A me, purtroppo, sembrò anche la sconfitta di uno Stato che, incapace di garantire i propri cittadini, li abbandonava nel momento di maggiore bisogno. Senza la forza d’animo di Giuseppe o di altri come lui, come si sarebbe arrivati a sentenze come quella emessa quell’8 dicembre dal tribunale di Agrigento?

Nacque quello stesso giorno, l’idea di aprire una nuova sezione sul giornale, dedicata alle vittime innocenti di mafia; ai familiari; a quanti non hanno mai avuto voce; a quanti troveranno il coraggio di averla. 

Occorre prima di tutto sottolineare la differenza che intercorre tra vittime innocenti e vittime in qualche modo legate al mondo mafioso, così come occorre fare i dovuti distinguo tra testimoni di giustizia e pentiti.
I primi, persone che  non hanno commesso alcun crimine e che con il mondo della mafia non hanno nulla a che spartire, la cui eventuale collaborazione non nasce dal trarre benefici di qualsivoglia carattere; criminali, o vicini a vario titolo al mondo della criminalità, i secondi, che seppur utile strumento per combattere la mafia, non possono e non devono essere sdoganati alla stregua di ‘folgorati sulla via di Damasco’…

La stessa distinzione, andrebbe anche fatta per tutti quegli imprenditori che decidono più o meno coraggiosamente di dire ‘NO’ alla mafia, al pizzo, al ricatto.

Anche tra questi, andrebbe fatto un distinguo, fra coloro che si ribellano al pizzo, senza aver mai avuto o chiesto favori a Cosa Nostra, e coloro che, pur denunciando in ultimo gli estorsori, con la mafia ci sono prima andati a braccetto, facendo affari, dividendo appalti, chiedendo o ricevendo favori, salvo poi divenire ‘imprenditori coraggiosi’. Anche questi ultimi, potrebbero essere annoverati fra quelli che abitualmente usiamo definire ‘pentiti’. Non dobbiamo inoltre dimenticare, come fra questi, ce ne sono stati che pur avvalendosi di tutti i benefici di legge e pur rientrando nei programmi di protezione o tutela, se da un lato trattavano con lo Stato, dall’altro, continuavano a dialogare e fare affari con i mafiosi.

Per scelta, sulle pagine di questo giornale, nessuno spazio sarà concesso alla categoria dei ‘pentiti’, che ben altre sedi hanno alle quali rivolgersi, anche in considerazione del fatto che il ‘pentitismo’, sembra sia quasi ‘tollerato’ dai mafiosi stessi, che intravedono in questo, la possibilità di garantirsi un futuro di fine carriera.

Una sorta di quiescenza, dopo una vita da criminali. Strumento sì; sì anche agli sconti di pena e altri benefici, ma senza nessuno sconto morale per quello che hanno e avrebbero continuato a fare.

È ai familiari di vittime innocenti ed ai veri imprenditori coraggiosi, che intendiamo dare voce. A tutti coloro i quali ad oggi è stata negata. Farci raccontare e raccontarvi le loro storie.

Nomi noti o sconosciuti. Piccoli Grandi Eroi, di ogni giorno, che con le loro storie hanno insegnato o ci insegneranno a dire ‘BASTA’ all’arroganza di piccoli uomini che conoscono soltanto la ragione della violenza.

Perché, dietro ogni nome, dietro ogni data, dietro ogni verbale, dietro ogni notizia, c’è una persona con la sua sofferenza, le sue difficoltà. Spesso, con la sua solitudine.

Inizieremo presto con la prima storia. La storia di un uomo che ha pagato caro il suo coraggio. Una storia di sangue; di vite stravolte, distrutte; di dolore e di rabbia; di voglia di urlarla al mondo, ma anche di silenzi e di lacrime ricacciate in gola.

Gian J. Morici

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